Marco Ferrari
I racconti de «La nascita del Che»

Fantasmi a Cuba

Davide Barilli ricama leggende intorno al mito di Cuba e dei vecchi eroi della rivoluzione. Fino a riscoprire la storia di Gino Doné Paro, l'unico europeo sulla Granma

La nascita del Che di Davide Barilli, edito da Aragno (pagg.221, euro 13), finalista del Premio Chiara, viaggia a ridosso dei grandi miti di Cuba visti dagli angoli più remoti, nascosti, sconnessi e disarmanti dell’isola caraibica. Il primo è ovviamente Che Guevara, che dà il titolo al libro di racconti dell’autore parmigiano, che già aveva girovagato sull’isola con Le cere di Baracoa, edito da Mursia. Ma anche in questo caso non si affondano le radici nel ruolo svolto dal medico argentino nella storia delle rivoluzioni, rivelando chissà quale segreto, bensì la narrazione gira attorno all’atto di nascita del Che recuperato per vie avventurose e non ufficiali che il protagonista della novella vorrebbe vendere ad un collezionista spagnolo. Solo che il protagonista finisce vittima del crollo di un’antica biblioteca nascosta in un fatiscente edificio del Seicento, simbolo di una storia che sembra andare in frantumi, passata dalla gesta degli hidalgo coloniali alle tessere annonarie del potere castrista. Quello che era un pozzo di meraviglie, da cui il protagonista attinge la propria sopravvivenza, si trasforma così in una tomba di libri, fogli, classici e rare edizioni bibliografiche.

Gino Doné ParoIl secondo mito che Barilli affronta è quello di Gino Doné Paro (San Biagio di Callalta, 18 maggio 1924 – San Donà di Piave, 22 marzo 2008, nella foto)), l’unico europeo presente tra gli 82 volontari imbarcati sul Granma (nella foto) il 25 novembre del 1956. Un eroe dimenticato, volutamente ai margini della storia, schivo nel raccontare i dettagli di quell’impresa che portò Fidel e suo i barbudos alla conquista dell’isola. Sono poche le sue testimonianze su Fidel, su Raul, sul Che e su Camilo Cienfuegos quasi che lui, modesto muratore, non volesse comparire nel parterre della rivoluzione castrista.  Insomma, siamo dentro alle vicende di un’ombra che ha segnato la grande storia ma che è rimasta in disparte per gran parte della sua esistenza per una scelta personale, libertaria, liberatoria. L’autore si mette sulle tracce di Gino Doné Paro tra memorie, reticenze, avventure: un uomo giunto a Cuba come clandestino a bordo di una nave, che fece mestieri come il muratore o il fabbro, finché Fidel non conobbe quell’ex partigiano italiano e sentì che poteva fidarsi di lui. «Accettò per amore, per istinto o per lucida scelta politica?» si domanda Barilli. Forse per tutte e tre le ragioni.

GranmaDi certo, per amore d’avventura e d’azzardo, per scelta ideologica e per istinto, essendo stato in Italia un partigiano combattivo. Fu lui a insegnare al Che, allora giovane medico in giro per l’America Latina, come si puntava il fucile e si sparava. Fu lui a traghettare i dollari necessari per progettare l’impresa del Granma (nella foto). Gino Doné Paro sbarcò dal piroscafo, si impantanò tra le canne da zucchero, fu attaccato dai soldati di Batista, ma ne uscì vivo. Uno dei guerriglieri rimasti indietro nello sbarco fu il Che. L’italiano tornò a cercarlo e lo trovò in preda ad un attacco d’asma, lo trascinò via e salvò. Quindi si perdette sulla Sierra, si unì alla resistenza clandestina finché, braccato dalla polizia, riuscì ad imbarcarsi e a fuggire. Certo, non partecipò alla marcia trionfale che portò i barbudos all’Avana, ma il suo ruolo venne riconosciuto tanti anni dopo mantenendo molti enigmi che soltanto la sua memoria avrebbe potuto sbrogliare se solo avesse voluto raccontare o scrivere come andarono davvero le cose. Ma non lo fece. Fu invitato più volte a Cuba per anniversari e commemorazioni senza mai apparire troppo, fedele al motto del Movimento 26 luglio «l’indiscrezione equivale ad un tradimento».

Quest’ombra italiana che si allunga sulla storia di Cuba è un po’ la mossa centrale di una partita a scacchi che l’autore gioca nel suo cammino sull’isola caraibica. Negli altri racconti la contesa è tutta incentrata sul mistero della sopravvivenza di un’identità, una scorza dura che va oltre il sistema castrista che domina la scena. Volutamente Barilli si tiene lontano dalle tematiche del potere. A lui interessa l’anima di Cuba che sta incarnata in marinai in pensioni, giocatori clandestini di lotto, ragazze di periferie, listeros disonesti, venditori di galli da combattimento (Il gallo in bicicletta) oppure tra le folle anonime che ogni sera o notte animano il Malecón (Il coleottero sul Malecón).

Davide BarilliDisegnata dalle mappe turistiche come il luogo più romantico dell’Avana, questo lungomare è il realtà il posto dove si intrecciano affari al nero, baratti di ogni genere, simbolo di un’umanità dolente e malinconica che scarica nell’ironia e nella musicalità tutta la sua incomprensione della vita. Ma c’è appunto in agguato una Cuba intima e dolente, gotica e macabra, come nel racconto “Il maggiordomo di Caruso”.  Gli scuri scenari di Edgar Allan Poe non sono poi così lontani dalla luce accesa dell’Avana, sembra insegnarci Davide Barilli (nella foto). Dopo Le cere di Baracoa l’autore padano prosegue la sua personale perlustrazione di Cuba, sperdendosi in rivoli sconosciuti dove ci si può sperdere con facilità, colmando un bisogno d’incontro nello sprofondo di un immaginario labirinto che ricorda tanto quello di Jorge Luis Borges.

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