Lidia Lombardi
“L’imperatore guerriero” di Giulio Castelli

Focus su Diocleziano

Nel suo quarto romanzo sul tramonto dell'impero romano, l'autore fa i conti con la storia facendo piazza pulita di luoghi comuni e approssimazioni intorno alla figura dell'imperatore venuto dalla Dalmazia. Persecutore di cristiani controvoglia, grande dirigista razionale e illuminato. E sullo sfondo si staglia un Costantino molto rampante...

Il 2013 è stato l’anno di Costantino. Celebrato a millesettecento anni di distanza (autunno 312) dalla visione della Croce, nella battaglia di Ponte Milvio (In hoc signo vinces) e da quell’Editto promulgato a Milano che per i più istituisce per la prima volta la libertà di culto dei cristiani. In realtà i seguaci di Cristo, in un impero romano sconfinato e tollerante con tutte le religioni, erano liberi per legge di pregare il proprio Dio non dal 313 ma dal 311. Ma la disposizione non era rispettata abbastanza e Costantino la riconfermò. Inoltre all’inizio del quarto secolo, nel 304, erano stati vittima delle persecuzioni di Diocleziano, l’imperatore venuto dalla Dalmazia e marchiato nella Storia dall’infamia di violento contro i miti galilei. Il quale era stato consigliato alla strage da Galerio, lo stesso che poi, malato e pauroso della vendetta del Dio biblico, istituì nel 311, l’anno in cui muore Diocleziano, la libertà di culto.

Insomma, sulle figure di Costantino, Galerio, Diocleziano gravano luoghi comuni e approssimazioni. Come siano andate davvero le cose lo racconta Giulio Castelli, giornalista e storico, nel quarto libro da lui firmato sul tramonto dell’impero romano. L’imperatore guerriero (Newton Compton, 570 pagine, 12 euro) è al pari degli altri suoi lavori – dedicati agli ultimi signori dell’Urbe, come Maggioriano, e a Marco Aurelio, il saggio che registra i primi segnali di disfacimento della grandezza di Roma – un romanzo storico. Sostenuto da studi rigorosi e dalla ricostruzione di fatti veri. Ma, spiega l’autore, colmato di rattoppi verosimili là dove i documenti sono lacunosi. Insomma Castelli narra vicende realmente accadute integrando con la fantasia le zone buie. Che nel caso di Diocleziano, «uno dei più grandi imperatori di Roma», si trovano soprattutto negli anni giovanili: quelli del «giovane provinciale Diocle di Salona che cresce nell’esercito» per poi «diventare riformatore di uno Stato che si sta sfaldando e, infine, il persecutore dei cristiani».

cop CastelliGià, persecutore. Castelli fa opera di revisione storica, inseguendo passo passo il tormento dell’augusto prima di prendere decisioni avverse alla “superstizione” dei seguaci del Messia. Egli incarna, vuole incarnare, la rettitudine, il carisma del Bene Pubblico, il demone della liberalità e della comprensione delle genti, le più disparate, sulle quali regna. Ma gli anni del suo declino psicologico e fisico, che lo porteranno – unico tra gli augusti – ad abdicare, i giorni trascorsi in Oriente, a Nicomedia, segnano un travaglio interiore al quale a un certo punto non riesce più a mettere argine. Come non riesce a mettere argine agli incauti consigli di Galerio, il marito della figlia Valeria, suo luogotenente, o cesare, nella quadripartizione del dominio romano che egli stesso aveva ideato per meglio amministrare il troppo esteso impero. Il brutale e pur fedele genero gli insinua il veleno del sospetto e della necessità di calpestare una volta per tutte i cristiani, divenuti troppo ricchi, arroganti, falsamente fedeli all’impero, volti a creare proseliti negli augusti palazzi, al fine di avere un monarca battezzato e loro protettore.

Esemplari sono le pagine del contrastato soggiorno in Oriente, prima a Caria, poi appunto a Nicomedia. Diocleziano è preoccupato per l’impennata dei prezzi provocata dalla voracità dei mercanti, che torchiano soprattutto i soldati di stanza nella zona sempre soggetta a ribellioni. Le derrate alimentari sono oggetto di speculazione, dunque l’augusto giovio (così l’appellativo scelto per la devozione a Giove) emette un editto che fissa il prezzo massimo dei generi di maggiore smercio. Il massimo, si badi bene, non il minimo, in modo di favorire la concorrenza. La misura però non ha successo. Le derrate vengono occultate e vendute al mercato nero. Le classi più povere sono scontente, si rasenta spesso la sommossa. «Quando appresi che anche gli aurei stavano sparendo dalla circolazione, capii definitivamente di avere fallito. Le monete d’oro erano acquistate e vendute a un prezzo molto superiore a quanto stabilito e finivano nei forzieri», fa dire Castelli a Diocleziano, che narra di sé in prima persona. Il tumulto strisciante, l’insoddisfazione del popolo si salda con il “problema dei cristiani”. Nel palazzo di Nicomedia, dove giunge disilluso, il tetrarca trova le proprie stanze dominate, sulla collina, da un’enorme costruzione, una basilica cristiana. È il segno di una supremazia di fede e insieme ideologica che non si può arrestare. Galerio insuffla sul sovrano, racconta di soldati convertiti che non vogliono uccidere in combattimento perché il Messia lo vieta. Di adepti che vivono in attesa di entrare nel regno dei cieli e dunque, in questa terra, si disinteressano del perno dello Stato, il Bene pubblico. Accusa gli inservienti di palazzo, convertiti in numero sempre maggiore, di aver appiccato incendi. La stessa augusta signora, Prisca, è sospettata di aver abbracciato la causa del Nazareno. E la rete dei vescovi sta cercando di prendere un pesce grosso, Costantino, il figlio del tetrarca Costanzo Floro.

dioclezianoQuando Castelli fa entrare in scena l’uomo dell’Editto di Milano, egli è un arrivista sotto la maschera deferente. Diocleziano lo convoca, insospettito dal “frenetico attivismo” che costui mostra nel palazzo. Il giovane tradisce il proprio rampantismo e lo chiama “augusto padre”, dimenticando che l’«appellativo poteva essere usato solo dai due cesari». Insomma, i conti con la Storia sono presto rifatti dall’Autore e la pagina appena ricordata ne è uno degli indicatori. Diocleziano, amante del bello come immagine carismatica dello Stato (basti pensare alle sue monumentali Terme in Roma), razionale, illuminato, «grande dirigista che sembra sfidare dalla profondità dei secoli i politici e i grandi decisori di un’epoca come la nostra, proiettata ciecamente verso il liberismo più sfrenato», Diocleziano dicevamo scivola controvoglia nelle persecuzioni anticristiane, più che altro per i cattivi consigli di chi gli è accanto. Proteggere gli dei pagani dall’“assalto” spregiudicato dei convertiti è per lui proteggere l’autorità dell’Impero, ciò che Roma ha costruito. Quando cerca di fermare il bagno di sangue nelle strade dell’Urbe è troppo tardi. E quando abdica non prevede il turbinio di faide che porteranno al potere l’ambizioso Costantino, il quale non sarà più un primus inter pares ma monarca autoritario, capace perfino, nel 326, di uccidere il figlio Crispo.

Castelli racconta questi snodi anche con intelligenza linguistica. I suoi personaggi riescono a stare bene in bilico sull’idioma retorico in uso all’epoca e l’immediatezza del parlato. E usa uno stile ricco di riferimenti al costume, capace di sbalzare con la tenacia del bulino come si viveva 1700 anni fa e insieme venato di malinconia, di presagio per un tramonto inevitabile. Un caos calmo, insomma. Sullo sfondo quasi sconfinato dell’Impero, esteso dalla penisola iberica al Limes danubiano, dal Mare Germanico alla terra degli Ircani, in Persia, come si evince dalle cartine che corredano il volume. E dove incedono figure affascinanti. Una per tutte: Zenobia, la regina della siriana Palmira, fiera anche quando diventa prigioniera di Diocleziano, nume di una “Pompei orientale” che ora la guerra civile nel Paese di Bashar al Assad separa dal mondo.

Facebooktwitterlinkedin