Ritratto del grande attore
La favola di Peppe
«Sono tempi bui e la prima vittima è la cultura. Napoli si deve svegliare dal torpore, dalla sconcia banalità, ha bisogno di respirare, di andare avanti». Parla Peppe Barra
Pierino e il lupo, il buono e il cattivo e l’immancabile lieto fine. La fiaba musicale di Prokof’ev rivive nel dialogo surreale e brioso tra il Discantus Ensemble di Luigi Grima e il carisma magnetico di Peppe Barra, un “gioco artistico” messo in scena ai Concerti d’estate a villa Guariglia, nell’ambito del progetto “Musique d’enfant” a firma di Francesco Nicolosi e Martina Santese. Il cantattore napoletano ha voluto festeggiare, nella notte della Costiera amalfitana, stellata come quelle della sua amata Procida, i settant’anni, compiuti lo scorso 24 luglio e celebrati alla Rotonda Diaz con amici ritrovati come Eugenio Bennato, Nunzio Areni, Patrizio Trampetti, Giovanni Mauriello e Fausta Vetere, ovvero la storica Nuova Compagnia di Canto Popolare (nella foto sotto, la sua prima formazione). È l’ulteriore tappa di un artista in continuo viaggio e continua crescita, un Ulisse che non dimentica mai la sua Itaca, «piena di odori e di racconti che hanno formato il mio immaginario». La barca dei sogni è la fiaba, mix di poesia e tradizione popolare, punto di partenza e di approdo di chi ha vissuto e narra la propria esistenza come fosse una favola.
C’era una volta nonna Michela e le sue figlie, Maria, Nella e Concetta, «se ne stavano tutto il giorno a cantare sulla spiaggia di Posillipo, finché non le scoprì il maestro Trovajoli». Lui fa da manager al trio, col nome Vittoria le porta in giro a far concerti per i militari. C’era una volta Giulio, reduce dalla guerra e fantasista in cerca di lavoro. «Abita nella pensione delle sorelle canterine, le loro voci lo disturbano, bussa furioso alla porta per farle smettere ma incontra gli occhi gitani di Concetta ed è subito colpo di fulmine». Pochi mesi dopo si sposano di “stramacchio”, lei è incinta. 1944, Peppe nasce in piazza dei Crociferi a due passi da Fontana di Trevi, il battesimo con le tavole, imprevisto, lo farà a tre anni, un «pupazzetto vestito alla tirolese» e scatenato al ritmo di un boogie woogie imbastito da Trovajoli per la Croce rossa americana, «un trionfo, ma le buscai».
C’era una volta zietta Liù, al secolo Lea Maggiulli Bartorelli. I Barra sono tornati a Napoli, Peppe ha 9 anni, frequenta le elementari e viene ammesso dalla scrittrice, antesignana del teatro per ragazzi, a frequentare la sua scuola di recitazione, ragazzino povero tra baby rampolli della buona società. A musicare le favole teatralizzate è un giovanissimo Roberto De Simone che «me trasmise l’ammore pe’ l’arte». Passano gli anni, zietta Liù cede il timone a Peppe, Roberto gli dà una mano, nasce il canovaccio, da un “cunto” di Basile, de La Gatta Cenerentola (nella foto sopra), bocciato, però, dai presidi: troppo dialetto. C’era una volta Gennaro Vitiello, amico di Garcia Lorca e Jean Genet, e anima del centro sperimentale Teatro Esse: con lui Peppe Barra fa l’ingresso ufficiale sulle scene. 1966, pieno revival folk legato alla ricerca etnomusicologa, De Simone forma la Nuova Compagnia di Canto Popolare «cu Eugenio Bennato e n’atri quattre guaglioni». Peppe Barra è perplesso, non ha mai cantato. Roberto insiste: «Tu tiene chistu vocione, j’ ‘a cantà pure!». Fa la sua apparizione il “mago” Eduardo che ascolta il gruppo al Conservatorio di San Pietro a Majella: «Se volete combinare qualcosa andate via da Napoli, ci disse e ci scrisse una lettera di presentazione a Romolo Valli, allora direttore artistico del Festival dei due mondi di Spoleto». Il successo è immediato, dischi e tournée in tutta Europa. Valli vuole un loro lavoro in prosa. Così, quella Gatta, sepolta in un cassetto, prende vita, è il 1976, al Teatro Nuovo di Spoleto, infinite repliche, «perfino davanti al Papa». Fellini se ne innamora, «veniva a vederci al Teatro Tenda una sera sì e una no». Gli piace, soprattutto, quel comico d’arte vestito da donna che con voce baritonale intona arie barocche: nasce il sodalizio che aggrega anche Nino Rota e Tony Florio, «i maestri che mi hanno rivelato a me stesso e che mi hanno insegnato a coltivare il talento».
C’era una volta mamma Concetta. Le prove della Gatta Cenerentola si abbozzano a casa Barra, Concetta canta in cucina, De Simone rimane colpito, la vuole nello spettacolo, sarà un ritorno glorioso al teatro. Colpo di scena. Il regista Lamberto Lambertini rimane folgorato da quella coppia, buffa, malinconica e leggermente edipica, formata da madre e figlio: «Mi rapì e mi fece divorziare da De Simone». L’occasione per la neonata compagnia “Peppe & Barra”(nella foto) viene dalla proposta di Scaparro di fare un recital per il Carnevale veneziano del 1982. L’antologia di reminiscenze popolari di pastorali e pulcinellate conquista tutti. Francia, Danimarca, India… La premiata ditta fagocita altri membri del clan: l’altro figlio Gabriele, zia Maria, tornata dall’America, papà Giulio che, seppure separato da Concetta, è lieto di questa riconciliazione artistica. «Con la voce di mamma – dice Peppe Barra – riuscii appena in tempo ad incidere, nel 1993, il mio primo disco da solista. Poi lei se ne andò, una malattia improvvisa, tre giorni prima avevamo recitato insieme. Da allora ho continuato a fare il cantastorie da solo, è l’unico rimpianto della mia vita. La rivedo nella sua dolcezza e carnalità a Salerno, nel Presepe Dipinto di Mario Carotenuto, filosofo-pittore, che l’ha immortalata come una zingara». Altra dolorosa assenza: Fabrizio De Andrè, «genovese affratellato dal mare, l’intesa fu immediata, mi regalò la sua Bocca di Rosa».
C’era una volta il teatro a Napoli, di strada o quasi, fatto con pochi mezzi, un teatro d’attori. «Ci credevamo a quel teatro, a quella bella rivolta costruita sulla memoria e sui valori – lamenta Peppe Barra – Non faccio mai ‘a ciucciuvettola, ma la vedo brutta. In questo periodo oscuro ci dobbiamo dare una calmata tutti, cominciando da quelli che governano. E in tempi bui chi ne fa le spese è la cultura, il teatro. A Napoli ci si vanta dello Stabile, ma dov’è? La televisione ha avvelenato le menti, trasmissioni schifose come Made in Sud dovrebbero essere bandite». Il giullare colto, fresco della laurea honoris causa della Federico II in Letteratura, scrittura e critica teatrale, combatte la sua battaglia tenendo lezioni all’università di «lengua napulitana». «Dobbiamo difendere questa lingua leggiadra che ha ispirato poeti e musici – avverte – Oggi i ragazzi conoscono solo le parole storpiate dai neomelodici o i grugniti malefici di Gomorra. La canzone napoletana, il teatro napoletano si è involgarito. Napoli si deve svegliare dal torpore, dalla sconcia banalità, ha bisogno di respirare, di andare avanti. I nostri giovani sono pigri? Ma dove stanno le strutture, i laboratori per farli crescere? Si spendono soldi per cacate, davanti a me, purtroppo, vedo solo il vuoto, ma il vuoto può generare la rabbia. Diamo amore, immaginazione, cultura ai ragazzi per fugare le tenebre. Insegniamo loro ad ascoltare il proprio cuore e a seguire il proprio istinto, a capire che il percorso per conquistare qualcosa è spinoso, ma che più spinoso è più gioioso è il traguardo».