Una mostra per il pittore franco-russo
Colore de Staël
Nel Castello di Antibes una temporanea arricchisce la collezione di Nicolas de Staël, un artista che tingeva di rosso vitale il proprio dolore
Il castello di Antibes, che i Grimaldi avevano donato a Picasso perché fosse il suo atelier e che oggi si chiama “Museo Picasso”, ospita in permanenza alcune opere del pittore spagnolo, ma al primo piano ha una stanza dedicata a Nicolas de Staël, che visse a Nizza gli ultimi anni della sua breve vita. Quest’anno, in occasione del centenario della nascita di de Staël, il Museo Picasso arricchisce la mostra permanente con una temporanea, Staël, la figure à nu, 1951-1955, dedicata ai suoi ultimi quadri e disegni, con molte opere appartenenti a collezioni private e alcune inedite, visitabile fino a Settembre.
Sono salita sulle rampe che portano a questo piccolo museo, in mezzo allo splendore della vegetazione del Cap d’Antibes visibile sotto i bastioni e tra il blu del mare, in una mattina piena di sole e di vento. Ero molto emozionata, perché in realtà temevo di vedere gli ultimi quadri di un pittore che amo, e che associo ad una tavolozza luminosa e vitale; sapevo che tutte le opere in mostra erano state realizzate a pochi mesi o giorni dal suo suicidio, avvenuto a quarantuno anni, e non volevo avere un’altra esperienza come quella di Houston.
A Houston c’è la Cappella della Pace, realizzata da Mark Rothko. Rothko è il pittore della gioia del colore puro: grandi tele, di solito quadrangolari, dove il colore è steso in due campi, divisi da una sottile linea orizzontale, rosso e arancio, oppure solo giallo, sopra e sotto la linea, oppure rosso e basta. Dentro le tele di Mark Rothko sei come risucchiato, e godi di quella pasta spessa e senza ombre né forme, che è colore assoluto. La Cappella di Houston è l’ultima opera del pittore, già entrato in una grave forma di quel “male di vivere” cui presto avrebbe ceduto. Ebbene, la cappella è piccola, angusta, una forma rigidamente poligonale a tutta altezza, senza finestre, solo strette feritoie agli angoli, pareti, soffitto e pavimento neri. A ogni parete c’è una identica tela, immensa, quadrata, totalmente nera, appesa alla parete nera. Il luogo vorrebbe essere dedicato alla preghiera di tutte le confessioni, ma il senso di angoscia opprimente ti impedisce qualunque preghiera. Perché la preghiera, per chi ne sia capace, credo che possa riassumersi in una richiesta, e dunque un’aspettativa positiva, una speranza di vita. Lì dentro il nero totale assorbiva col suo spessore morboso, vellutato, qualunque pensiero di speranza. Come oltre la porta dell’inferno di Dante.
Rothko è ancora per me il pittore del colore e della gioia, ma dopo Houston ho dovuto riguardare a lungo le sue opere precedenti, per cancellare dalla mente l’impressione di essermi trovata “dentro” al momento estremo del suo “male di vivere”.
Ecco perché non volevo entrare al Museo Picasso di Antibes per vedere le ultime opere di de Staël.
Nicolas de Staël von Holstein, russo naturalizzato francese, di nobili natali, nasce a St.Pietroburgo nel 1913 e trascorre molto tempo in Francia tra gli intellettuali dell’epoca, ma anche in viaggio, a cercare spunti e intuizioni, come ad Agrigento, dove dipinge dei fenomenali paesaggi con la dominante gialla. Sceglie una pittura forte, colori puri e stesi con la spatola, apparentemente una pittura informale o astratta, in realtà non è mai assente nelle sue opere una forma riconducibile a un oggetto noto. «C’è sempre un soggetto, sempre», scriverà in una delle molte lettere a René Char. Dunque questi nudi, raccolti nella mostra di Antibes, non sono secondo me una novità nella sua pittura.
Il primo pezzo che vado a cercare appartiene alla collezione del museo, Il Concerto, del marzo 1955, mese e anno della sua morte. È una tela orizzontale, di sei metri di lunghezza, la cui composizione è strutturata in modo teatrale: a sinistra un pianoforte nero fa da quinta, all’estremità opposta un grande contrabbasso color legno. In mezzo un mare di spartiti bianchi, e tutto il resto è assorbito da un fondale rosso. È un’opera che mi allarga il cuore, certo anche per le sue dimensioni, ma soprattutto per quel rosso enorme, dal quale sono circondata. È come dire la musica, raccontare la musica attraverso le forme dei suoi strumenti, belli, pesanti di sostanza e ampi di suono nelle loro grandi casse di risonanza (piano e contrabbasso sono tra gli strumenti più corposi e cavernosi dell’orchestra) ma anche attraverso la sua scrittura, gli spartiti. E poi, oltre a dire la musica, de Staël riesce a farcela sentire: non essendoci i suonatori, potrebbe essere un palco vuoto in attesa o dopo un concerto, ma quel rosso enorme dietro e attorno, che avviluppa e che vibra per la sua essenza (il rosso ha una maggiore vibrazione di onde luminose) ci fa sentire la musica che sta avvenendo mentre noi guardiamo il quadro.
Pare che Beethoven, ormai sordo, appoggiasse disperatamente l’orecchio alla cassa del pianoforte mentre componeva per cogliere le vibrazioni. Davanti al Concerto di de Staël si ha la stessa sensazione di poter percepire la vibrazione della musica. Quale musica? La vostra, quella che vi risuona dentro, Beethoven o i Rolling Stones, non importa, è sempre rossa.
Rincuorata, ho guardato gli altri quadri, e ho notato che il colore rosso, declinato in altri significati, è molto presente. Ora, la questione del significato dei colori può avere o no un senso in pittura, intendo l’interpretazione psicologica di Goethe e di altri; che il blu e il verde siano colori freddi e i gialli e i rossi siano caldi, io sinceramente non credo, o almeno non mi pongo il problema in questo modo, anche quando faccio pittura, perché in realtà non è che si scelga un colore o un altro, se mai l’idea del quadro nasce insieme al colore, ma anche di questa affermazione non sono così certa. Di fatto, però, mentre il nero totale di Rothko mi angoscia, il rosso di de Staël riconosco che è stato usato per sensazioni o oggetti “caldi”, cioè vivi. Ritroviamo infatti la musica rossa intorno a I musicisti, ricordo di Sidney Bechet, una jam session dedicata all’amico jazzista.
Nel ’52, al Parc des Princes, a Parigi, de Staël assiste alla partita di calcio Francia-Svezia. Ne nasce una serie di oli e gouaches, Giocatori di football, e qui in mostra vedo che il rosso è utilizzato sulle gambe di un giocatore, e sul tronco di un altro che si piega in un’azione.
Ma anche nel Ritratto di Anne, ecco che il viso, il seno e il ventre di Anne sono rossi. Tutti i luoghi dell’eros, quelli attraverso i quali un cieco ritroverebbe il proprio oggetto d’amore, sono identificati con il colore rosso. Non c’è rosso, però, sulla figura femminile distesa sulla spiaggia, del ’55, (una sconosciuta?) e non c’è rosso addosso al grande Nudo disteso blu, che costituisce il manifesto della mostra, una tela di una bellezza irraggiungibile. Qui rosso è invece il cielo, e blu diventa la figura.
Il rosso di de Staël è dunque il colore della musica, del cielo, dell’amore, del movimento puro, e qui stravolge legittimamente le tinte “reali”, mentre gli altri colori sulle tele sono del tutto rispettosi delle tinte originali degli oggetti rappresentati. E’ come se il pittore dicesse: sto sprofondando, ma un colore può insegnarmi di nuovo la vita, che è nell’amore, nel suono, nel movimento.
Anche Vincent van Gogh confidava al fratello Theo di non riuscire a dipingere durante le crisi di angoscia che lo costringevano alle cure della clinica del dottor Gachet, e solo con la mente libera poteva cogliere la pienezza di un campo di girasoli al mattino, e lasciarsi andare felice e febbrile con i pennelli e i colori.
Al secondo piano del castello, nella sala di Picasso, il padrone di casa, tra le opere di ceramica e il bel disegno della Capra, c’è La gioia di vivere, un olio del ’46. Picasso è appagato, felice e celebrato nella sua bella Costa Azzurra con i suoi profumi di basilico e di pitosforo, le donne importanti che lo amano, gli intellettuali che vengono a visitarlo, i fotografi e i collezionisti che se lo contendono. Ho sempre pensato che questo quadro, La gioia di vivere, esprimesse pienamente il suo titolo: nell’ora pomeridiana, in una radura sotto gli alberi, un’ebbrezza pagana, virgiliana, prende possesso di una dea blu che danza nuda mentre due satiri, ai suoi lati, suonano il flauto di Pan. Tutto è blu, anche l’ombra e il mare sullo sfondo, con una barchetta.
È, come dire, il ritratto sensuale e lussureggiante della Costa Azzurra dei tempi d’oro di Picasso e di Sartre, non certo quella dei russi e degli arabi con i panfili e le Limousine di adesso. C’è una gioia pura, perfetta, appunto “classica”. Ma non c’è traccia di rosso.
Oggi questa Gioia di vivere di Picasso mi è sembrata lontana. Lontana da me, proprio perché perfetta, perfettamente azzurra; potrei dire algida, senonché i colori per Picasso non hanno alcuna valenza preferenziale, li usa tutti, in modo magistrale, nelle varie fasi della sua vita artistica, e hanno tutti la giusta temperatura, nei diversi quadri. Ma oggi ho guardato i quadri disperati e pieni di voglia di vivere di de Staël, e li ho sentiti vicini, ho intravisto il suo sforzo umano per sopravvivere al dolore, la sua rinnovata gioia di vivere dietro i rossi che accendono e riscaldano quel “male oscuro”, sia pure per un momento. Cronologico, per Nicolas, che aveva finito il suo tempo, ma eterno per noi spettatori.