Fa male lo sport
La volta di Videla
Ancora Argentina-Olanda. Come nel 1978, a Buenos Aires, quando sui campi la nazionale di Menotti vinceva mentre fuori la polizia di Videla torturava. Nel silenzio generale. Anzi, nel tripudio generale
Ancora Argentina e Olanda di fronte in un Mondiale di calcio. Questa volta in semifinale e in Brasile. Trentasei anni fa giocarono a Buenos Aires la finale del Mondiale della vergogna: 3-1 agli orange, reti di Kempes, pari di Nanninga ad otto minuti dalla fine, poi nei supplementari ancora Kempes e infine Bertoni. Argentina campione. Arbitro il signor Sergio Gonella, un cuor di leone e non c’è bisogno di spiegare il perché. All’89’ Rensenbrink colpì un palo che poteva cambiare il corso della storia. Perché da quella vittoria i militari trovarono la definitiva legittimazione internazionale e poterono continuare la guerra sucia, la repressione feroce di ogni opposizione, la sparizione e l’assassinio di migliaia di persone. Con il consenso degli Stati Uniti, impegnati ad eliminare ogni focolaio comunista – o semplicemente democratico – con l’Operazione Condor teorizzata da Nixon e Kissinger. Il Cile mostrò gli stadi affollati di prigionieri, l’Argentina li nascose. Fu così che il generale Jorge Rafael Videla, il numero 1 della giunta militare, consegnò la Coppa a Daniel Passarella, il capitano. Era il 25 giugno 1978. Lionel Andres Messi sarebbe nato nove anni più tardi, il 24 giugno 1987.
Soltanto in quel mese di giugno, in Argentina scomparvero 63 persone. Mentre il Mondiale impazzava e trascinava la gente a festeggiare per le strade. Il calcio chiuse gli occhi di fronte alla macelleria argentina. Ma non solo il calcio. Tutto il mondo ritenne più conveniente tacere: c’erano contratti da rispettare, affari da concludere, il commercio delle armi da sostenere. Persino i montoneros si erano imposti una tregua armata, non boicottare la manifestazione, non disturbare i turisti. In sostanza, solo in tre Paesi prese forma la protesta popolare verso la manifestazione. Si trattò di Olanda, Svezia e Francia. Stiamo parlando di minoranze. Tant’è vero che un personaggio molto noto in Olanda all’epoca, il cabarettista Freek de Jonge, tra i sostenitori del boicottaggio, resosi conto che al 70% degli olandesi stava bene andare a giocare in Argentina e che i giocatori restavano indifferenti sull’argomento, scrisse a Ruud Krol, il capitano della squadra, una lettera che diceva: «Nessuno potrà dire, come nel 1936, che non lo sapevate. Andate al Mondiale da eroi, tornerete da collaborazionisti». Il richiamo alle Olimpiadi di Hitler era terribile e azzeccato.
In Italia Angelo Rizzoli impose al Corriere della Sera di parlare solo di una nazione felice e pacificata: lui si era accaparrato la maggiore azienda editoriale argentina e il giornale di via Solferino era in mano alla P2. L’ammiraglio Emilio Eduardo Massera stava nella organizzazione di Gelli, il Venerabile era di casa in Sudamerica. Anche durante i Mondiali. La Chiesa cattolica benediceva militari e palloni con il cardinale Juan Carlos Aramburu, arcivescovo della capitale.
Eppure, a poche centinaia di metri dallo stadio Monumental, il catino del River Plate, lì dove si giocò la finale tra i biancocelesti e i “tulipani”, si torturava e si uccideva, i desaparecidos finivano là dentro, nella sede dell’Esma, la “Escuela de Mecanica de la Armada”, prima di fare i vuelos de la muerte, buttati in mare. In quei giorni del calcio, gli aguzzini imponevano ai prigionieri di ascoltare a tutto volume anche la radiocronaca delle partite, innanzitutto delle gare della nazionale. Il calcio divenne uno strumento di tortura. E di consenso, come sempre nelle dittature. Anche tra le vittime. Hebe de Bonafini, presidente dell’Associazione delle madri di Plaza de Mayo, ha raccontato che mentre lei era in cucina a piangere, il marito era nel salotto davanti al televisore ad esaltarsi per i gol di Kempes & Co., dimenticandosi di quel figlio scomparso.
Le madres continuarono a sfilare anche durante la rassegna pallonara. Si diffusero notizie confuse, bugie o esagerazioni che sono andate avanti per anni a proposito di visite di calciatori olandesi o svedesi a quei raduni di protesta. Non accadde nulla di tutto questo, forse qualche giocatore capitò per caso, essendo in giro come turista, in qualche manifestazione. Forse Wim Rijsbergen, difensore della nazionale olandese e del Feyenoord, fece visita a una delle donne. Ma si trattò di un fatto privato, non pubblicizzato per non disturbare. Sicuramente il portiere della Svezia, Ronnie Hellstrom, non marciò mai con le madres nonostante il diffondersi di una leggenda che sosteneva il contrario. E una bugia è stata per molto tempo l’ipotesi che Johan Cruijff rinunciasse al Mondiale per dimostrare la sua avversione alla dittatura. In realtà il “Profeta del gol” ebbe paura dopo che dei banditi avevano fatto irruzione nella sua abitazione a Barcellona; temeva che i figli potessero essere rapiti, come ha dichiarato anche di recente. Insomma su quella rinuncia non gravò nessuna scelta politica o ideologica.
Giovedì primo di giugno 1978 le madri erano in piazza, come ogni giovedì, insultate dalla gente, mentre il Mondiale si avviava con una gran festa, 1200 studenti vestiti di bianco formarono sul prato del Monumental una colomba della pace che ricordava quella di Picasso. La macchina della propaganda aveva curato ogni cosa nei minimi particolari. L’agenzia statunitense Burson Marsteller & Company aveva svolto un buon lavoro e ora reclamava mezzo milione di dollari dal governo golpista «per pratiche realizzate al fine di zittire e smentire i militanti per i diritti umani». Secondo Pablo Llonto – giornalista argentino che ha scritto nove anni fa uno dei migliori libri sul Mondiale del ’78, La verguenza de todos, che nella versione italiana (“I Mondiali della vergogna”, Edizioni Alegre) si avvale di una prefazione di Giuseppe Narducci, il magistrato napoletano di Calciopoli – l’agenzia aveva puntato su due elementi: testimonial prestigiosi dello sport argentino, i Fangio, i Monzon, i Vilas ad esempio. E, soprattutto, una corruzione discreta e raffinata dei giornalisti stranieri: alberghi a cinque stelle ed esclusivi, serate galanti con belle donne, e ogni altro comfort di lusso. In cambio avrebbero scritto bene del Paese che li ospitava. Si calcola che la rassegna internazionale del calcio costò tre volte in più di quella successiva di Spagna ’82. La giunta militare che pure agli inizi era fredda verso l’avvenimento – lo era soprattutto il numero 1, Videla – si convinse che ne avrebbe tratto un gran ritorno di immagine. L’ammiraglio Massera era il più sicuro sostenitore dei Mondiali: «Politicamente ci conviene farli». Andarono fino in fondo con ogni mezzo. L’ammiraglio riuscì a piazzare un suo uomo, il capitano di vascello Carlos Lacoste, alla testa dell’organizzazione. Né il capitano, né il triumvirato che reggeva il Paese – Videla, Massera e il brigadiere generale Rolando Ramon Agosti – fecero troppe obiezioni sul tecnico di quella nazionale argentina che doveva vincere ad ogni costo: Cesar Luis Menotti, detto el Flaco, considerato un peronista di sinistra, un radicale. In realtà uno con la tessera del Partito comunista dal 1959. Venne lasciato al suo posto, nonostante la stampa del regime ne invocasse la cacciata anche a causa della mancata convocazione del giovane Maradona.
Menotti (nella foto) si è sempre difeso dalle accuse di aver dato una mano al regime. «Io non vissi sotto una campana di vetro durante il Mondiale – disse nel corso di una intervista nel 1999 –. La sparizione dei militanti era sempre esistita. Quello che ignoravo era la gravità e la pazzia della repressione. Questo lo seppi dopo, quando si finì di scoprire tutto il disastro». Llonto aggiunge: «Parole simili aveva usato Borges dieci anni prima: “Ci misi molto a rendermi conto di quelle cose”».
Menotti ebbe anche molti scambi vivaci con i giornalisti olandesi. Una volta disse: «Il Mondiale del calcio è una cosa strettamente sportiva che nessuno ha il diritto di ostacolare perché il protagonista assoluto è il pubblico. È inutile mischiare la politica con lo sport… In innumerevoli casi si tennero Olimpiadi con la partecipazione di russi e nordamericani, i tedeschi dell’est e dell’ovet e nessuno disse nulla. Che nessuno abbia la pretesa di usare il Mondiale come arma politica… il Mondiale è soprattutto la festa massima del popolo…». Concetto che riprese, in modo più colorito, negli spogliatori prima della finale con gli olandesi: «Non vinciamo per quei figli di puttana ma per il nostro popolo». In altre parole, non guardate le tribune e i militari ma la gente felice sugli spalti. Anche molti giocatori la pensavano allo stesso modo. Addirittura Osvaldo Ardiles, uno dei più sensibili e uno che poi ha fatto autocritica, all’epoca rispondeva a chi gli chiedeva dei diritti umani: «In Argentina siamo diritti e umani».
Ci sono voluti molti anni perché alcuni protagonisti di quella storia rivedessero il loro atteggiamento. Quique Peinado in Calciatori di sinistra (Isbn Edizioni) ha descritto l’incontro che avvenne, venticinque anni dopo, tra Ricardo Villa, il centrocampista che con Ardiles andò a giocare poi nel Tottenham, e Tati Almeida, madre di un ragazzo sequestrato nel ’75 e mai più tornato. Disse Villa: «…non mi sento corresponsabile o complice dei militari. Sebbene possa sembrare stupido, sono stato un calciatore a cui toccò vivere in un’epoca di merda della storia argentina. Oggi rimpiango che le cose siano andate così. Magari avessimo potuto avere questo dialogo in quel momento, e la personalità per denunciare qualcosa… Ero soltanto un calciatore che voleva diventare campione del mondo…». Altrove ebbe a rimproverarsi: «Ammetto che ero un coglione e non vedevo oltre il pallone». Pochissimi calciatori parteciparono alla manifestazione organizzata da associazioni per i diritti umani nel trentesimo anniversario del Mondiale. Un corteo sfilò dall’Esma al Monumental. C’erano Villa e Ricardo Luque. La maggioranza continua a ritenere di avere agito nel modo giusto e di non dover chiedere perdono: «Ben altri settori furono complici della dittatura». Il calcio contò anche un desaparecido: Carlos Alberto Rivada dell’Huracan, un ragazzo con simpatie di sinistra. Il rugby e l’hockey su prato ebbero invece numerose vittime.
Quello fu il Mondiale della vergogna anche per altre cose. La corruzione della squadra peruviana che lasciò vincere 6-0 quella argentina per far fuori dalla finale il Brasile: la cosiddetta marmelada peruana. Videla che fa visita alla squadra andina, 50 milioni di dollari al governo di quel Paese e tonnellate e tonnellate di grano, le accuse tra gli stessi giocatori peruviani, l’atteggiamento di Quiroga, il portiere, il maggior indiziato insieme ad altri della difesa. Accuse mai provate. E mai trovarono fondamenta i sospetti che la nazionale biancoceleste facesse ricorso al doping.
Nel 2003, venticinque anni dopo, il distacco della gente da quella vittoria si mostrò per intero quando al Monumental si giocò la partita omaggio ai campioni un po’ ingrigiti del ’78. Apparvero scritte tipo: «Dentro si vinceva un Mondiale, fuori si perdeva un Paese». Oppure: «1978-2003 Campioni di cosa? Continuiamo la lotta». Sui gradoni dello stadio della vittoria si ritrovarono soltanto 6.613 spettatori. Ormai era un’altra Argentina.