Danilo Maestosi
Al Vittoriano di Roma

Terre di segni

Una grande mostra rivela la pittura di Irene Petrafesa, artista che ha scelto l’eccentrico primato del segno e la valenza metafisica del colore. Sulla scia di Cy Twombly e Mark Rothko

Dimenticando che è l’unico che la vita ci concede, passiamo tutti, più o meno, il nostro tempo a indossare maschere, costruire e distruggere fortini che trasformiamo in prigioni. Irene Petrafesa, artista pugliese di Andria, over cinquanta, la sua maschera se l’è tolta ed è evasa dalla gabbia quando all’inizio del nuovo Millennio ha deciso di rinunciare al posto fisso di impiegata del fisco e di seguire la sua vocazione per la pittura, farne una professione. Avviando una carriera costellata di personali e collettive oltre i confini di casa e sigillata da premi e riconoscimenti importanti e alla quale ora imprime una svolta presentandosi, con il sostegno dell’editrice Segni d’arte, in un prestigioso spazio pubblico della capitale, il museo del Vittoriano, con una mostra, in scena fino a settembre, che condensa in una ventina di quadri la sua ricerca passata e presente.

Irene Petrafesa cattedrale«Tra terra e mare»: il titolo con cui i due curatori Claudio Strinati e Nicolina Bianchi la battezzano, traccia i confini dell’orizzonte iconografico su cui si è misurata e la scansione cronologica dei lavori in esposizione, tutti fortemente ancorati alla realtà. Un rimando oggettivo che Irene Petrafesa offre a chi guarda i suoi quadri e probabilmente a se stessa come un filo d’Arianna per non smarrirsi nel labirinto di andirivieni fra figura e astrazione con cui dà e toglie corpo alla sua pittura. Una pittura che rende esplicito omaggio a due maestri del secondo Novecento, Cy Twombly e Mark Rothko che – confessa – le hanno aperto la strada verso l’eccentrico primato del segno e la valenza metafisica del colore. Ma rivendica come campo d’azione il contemporaneo, facendo propri due codici guida del tempo in cui viviamo: il senso di sospensione e spaesamento e la contaminazione di materiali e linguaggi.

Il punto di partenza, la terra, è il leit motiv della prima sala. I paesaggi su cui si concentra a inizio carriera sono vedute metropolitane. Palazzoni, ciminiere, skiline di aree industriali: scorci che la pittrice sembra allontanare da sé, trasformare in fondali che ora infiamma di rosso, ora immerge in un bianco sporco e calcinato, accentuando la mancanza di messa a fuoco in una foschia costante che frantuma e disperde i dettagli. Poi cerca e suggerisce altre sintesi, come quel riquadro rosso cupo e sfibrato che domina la sua rappresentazione del duomo di Trani: è il peso secolare della Chiesa che offusca tutto anche il sacro e la storia di quel monumento che affiora da tasselli appena accennati.

Irene Petrafesa mare nostroDomina in questa prima fase e frena a volte i risultati l’ossessione per l’impianto, che a poco a poco Irene Petrafesa riesce a lasciarsi alle spalle, accorgendosi forse che si sta costruendo una nuova prigione. E così comincia a misurarsi col vuoto. A liberarlo, ma a dargli fisicità tangibile, la vitalità opaca di un muro su cui la realtà si riflette tra tumescenze e graffiti imprimendo il suo marchio. E su questo specchio calcinato che in un nuovo ciclo iscrive l’ombra di figure che cattura al volo con sguardo miope e con cui cerca di ridare almeno vita da fantasmi alla folla di persone che lei come tutti noi ci vede circolare attorno, per strada, alla stazione, in un porto, una valigia in mano e nient’altro: l’umanità come un coro di passanti in transito. Da dove, verso dove? Gran passo avanti quando la pittura si interroga, ci pone davanti lo spettacolo di una domanda.

L’ultimo conseguente balzo, nella seconda sala, è verso il mare, placenta di vita e di memorie. Un tuffo in un suggestivo scenario di finestre blu, solcate di segni, tracce gessose, il colore non più affidato al pennello ma ad impronte stampate, striature di pastelli sovrapposte. Il mare non è come nei quadri di Guccione il mistero dell’infinito misurato da un’acqua increspata che punta l’orizzonte. Ma un flusso di emozioni che ci si erge davanti, ci sovrasta e c’invischia. Un muro che inquadriamo dal basso e alla cui sommità dobbiamo risalire per non annegare, riprendere a respirare. Ce lo ricorda l’ultima tela, inserita giustamente a fine percorso. Tre corpi, scuri, ridotti ad ombre, che si agitano allacciati verso l’alto dove il bianco si intreccia col blu dello sfondo a suggerire un lembo di cielo, un soffio di salvezza. Evadere, magari per approdare verso un’altra prigione. I tormenti della pittura, come quelli della vita, non hanno mai fine.

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