Un libro di Pippo Di Marca
Teatro alla Duchamp
Da storico e critico della cultura, oltre che da protagonista del meta-teatro, Di Marca racconta un'avventura lunga cinquant'anni, quella dell'avanguardia. Con le vicende, le piccole odissee, gli incroci di tutti i personaggi, maggiori e minori. A cominciare da lui...
Sotto la tenda dell’avanguardia significa che l’avanguardia ha cessato di procedere in avanzata e che, pertanto, si è accampata? L’avanguardia al bivacco? Non proprio, ma certamente è diventata in qualche modo stanziale, forse perché sta pensando se stessa come “istituzione” da permanenza, pur mantenendosi in contesto da contestazione continua. Magari ancora sullo slogan: ce n’est qu’en début, con quello che seguirebbe. Perché è quasi così che vengono dati inizio e conclusione alla narrazione storico-critica di un percorso durato oltre cinquant’anni (1959-2011) intorno a «quella straordinaria avventura artistica chiamata teatro d’avanguardia», come dice nel suo libro Pippo Di Marca: questa volta non solo come autore-regista, ma anche, e soprattutto, come storico e come critico di cultura. Il titolo esatto del libro è Sotto la tenda dell’avanguardia (Titivillus Edizioni, 325 pagine, 18 euro). Nel quale l’autore stesso dichiara: «Somigliavamo un po’ a campi nomadi, con carovane di zingari che vagabondavano da un accampamento all’altro: piccole odissee alla ricerca di sé e del luogo ideale».
Certo, anche con l’orgoglio di poter dire che a far da battistrada a tale avanguardia, per certi aspetti, c’est moi, se non altro per via della formula-concezione che costituisce il marchio del “suo” teatro specifico: il Meta-Teatro. Pertanto è evidente che il nume di riferimento non può non essere che Marcel Duchamp. Ed è attraverso il colossale “salto di lato” mentale e iconico, inaugurato da Duchamp, che Pippo Di Marca non solo realizza se stesso ma anche interpreta ed esamina (descrive, racconta e riassume) tutto il teatro italiano d’avanguardia di quel periodo: quindi il teatro degli altri. Tutti quelli che si sono di volta in volta affannati, sbracciati, esaltati e depressi dalle cantine alle officine, dai laboratori agli atenei, dalle piazze ai teatri stabili, in quell’avventura fervente dalla seconda metà del secolo scorso e oltre.
In questo suo libro, ovviamente, ci sono tutti gli italiani, ma proprio tutti, maggiori o minori che fossero, assieme ai protagonisti più rilevanti nel panorama internazionale della teatralità più avanzata, dal Living Theatre a Grotowski. Ci si creda sulla parola: gli elenchi sono tutti al completo, sia pure di un completo di parte. Ma ciò fa parte del ruolo delle parti, e quindi va bene così. Generosamente, cordialmente e ammirativamente, Pippo Di Marca, questo hidalgo del teatro italiano d’avanguardia, parla, infatti, di tutti i teatranti della sua specie: non ne dimentica uno dei suoi “compagni da palco” del lungo periodo della “creatività diffusa” e dei “cento fuochi” che animarono i “sistemi intercodice” (sono proprio queste le sue espressioni), riferendosi a tutti coloro che vi furono stati e che, magari, ci sono ancora. Intanto lui, nel frattempo, attraverso la pratica della meta-teatralità ha saputo diventare anche meta-storico. Parrebbe, infatti, essere questa una sua convinzione in proposito: l’avanguardia, una volta che sia entrata in orbita, può restarci per sempre, come se le cose che sono esistite, quali necessarie, una volta, debbano perdurare, quali necessarie, per sempre. E non è detto che non abbia ragione lui. Nella storia della cultura complessiva, anche l’avanguardia ha il suo posto nella classicità. Per esempio, quel Carmelo Bene, benché figura esemplare di ogni dismisura, è stato ben altro che una meteora soltanto deflagrante: bensì la rivelazione di una forma precipua della modernità, che “deve”, perciò, considerarsi come permanente. Insomma, per Pippo di Marca, l’avanguardia dovrebbe godere di una natura eterna.
E ciò, ovviamente, vale, ancora di più, per il suo Marcel Duchamp, dal quale, peraltro, egli ha imparato che le dismisure vanno sempre articolate entro criteri di misura. Criteri di misura alla Duchamp, ben s’intende: criteri intrisi di concettualità (il vero iniziatore dell’arte concettuale, sotto tutti gli aspetti e generi, è senz’altro Duchamp) e connessi, perciò, con la letterarietà. Risiede tutta in questa intuizione la vera scoperta di Pippo Di Marca: l’utilizzazione del testo letterario come tale, indipendentemente dal fatto di dover essere scritto come testo teatrale, anzi. I testi letterari utilizzati da Di Marca sono di per sé, originariamente, non teatrali. Che, però, una volta assunti in contesto teatrale diventano teatrali conservando, però, la loro qualità da letterarietà non teatrale. Il che consente la possibilità di una doppia lettura di un testo rappresentato in tale maniera. È un’impostazione di “messa insieme” di due “strutture” (il teatro e la letteratura) che, pur unendosi, mantengono la loro distinzione specifica. Il teatro, pur facendosi funzione della letteratura, resta teatro (non è letteratura); e la letteratura, pur facendosi funzione del teatro, resta letteratura (non è teatro). Ma, insieme, sanno essere (sanno apparire) l’una cosa e l’altra.
E a conferma di quanto detto sopra, a proposito di questa sua operazione di congiunzione tutta particolare tra teatralità e letterarietà, Di Marca precisa che i testi “di parola”, da lui messi in rappresentazione, pur non essendo stati scritti per il teatro, sarà il teatro stesso, come dispositivo trasformativo, a renderli teatrali attraverso il procedimento della “scrittura scenica”.Il teatro, per lui, infatti, non si fa sulle tavole del tavolino, ma sulle tavole del palcoscenico. E scrive: «Il teatro si fa, non si scrive prima e separatamente; è un evento che si scrive su quelle tavole, nasce come laboratorio, improvvisazione, sperimentazione e contaminazione di linguaggi, ricerca, aspira a farsi “scrittura scenica”». Per i contenuti (i “significati”) è presto detto: secondo i canoni delle avanguardie storiche e non, il teatro di Di Marca si sente benedicente di tutti i maledettismi, quelli considerati tali per ormai consolidata tradizione. Assunti da lui (Pippo Di Marca) sempre con l’aria di dire: i contenuti o sono duchampiani, o niente; o sono rimbaudiani, o niente. Ecco, allora, in catalogo, i suoi autori: Lautréamont, Kafka, Valéry, Beckett, Gadda, Genet, Sanguineti, Bernhard, Bufalino…
Ma tornando al suo libro come storia dell’avanguardia dei suoi tempi (tempi, dice egli stesso, in cui tutto quello che succedeva allora, anche e soprattutto nella società e nella politica, era “teatrale”), va segnalato che anche il meta-storico e perciò il meta-politico Pippo Di Marca, dice di considerarsi egli stesso (o il suo teatro come tale) interiormente politico; magari sulla scia dello “storico” Convegno d’Ivrea del 1967, il cui manifesto sembra aver dettato la linea politica di tutta l’avventura d’avanguardia che nei decenni successivi si è succeduta: «Il teatro deve poter arrivare alla contestazione assoluta e totale». Non è per dissentire, ma proprio per “storicizzare”, che si è tenuti a costatare che sia il teatro di Carmelo Bene e sia il teatro di Pippo Di Marca, proprio nella loro meta-storicità, hanno una capacità d’imposizione di un’estraneità e di un’alterità dal reale ben superiore alla progettazione d’estraneità e d’alterità proposta dalla politica praticata direttamente ed esplicitamente come tale. Infatti, proprio nel caso del teatro meta-teatrale di Pippo di Marca, la politica esplicita, anche se c’è, diventa subito, per conseguenza, un’espressione da mate-politica.
Inoltre, anche maestro, infatti, dell’azione indiretta, Pippo Di Marca, in omaggio al suo nume, si è fatto una volta performer duchampiano proprio scegliendo come contenuto-destinatario Marcel Duchamp. Trascrivo ciò che egli scrive: «Alla Rassegna Arte e Politica di Parma, nel giugno ’79, con la performance, o azione scenica, Sostituzioni, accompagnato da Titti Danese e da una piccola processione di critici e spettatori, spedii dalla posta centrale, al suo vecchio indirizzo parigino, undici anni dopo la sua morte, datati tuttavia come centodieci, una lettera regolarmente affrancata di saluti e di “addio” – per sancire tra l’altro, o soprattutto, l’avvenuta “sostituzione” con Duchamp: lettera che ho ragionedi pensare sia stata recapitata, non essendo stata respinta al mittente con dicitura ’destinatario sconosciuto’…».E anche questa, perciò, opera-operazione duchampianamente quanto mai riuscita.