Un grande narratore da recuperare
Stile Scerbanenco
Quarant'anni dopo, può essere utile rileggere uno qualunque dei suoi romanzi (per esempio «Né sempre né mai», del 1974) per scoprire che inventare uccide
Imbattersi in un romanzo di Giorgio Scerbanenco è una sciagura, perché conferma il carattere casuale e, per di più, dissipatorio dell’esistenza: al posto di quel suo libriccino, avremmo potuto impugnarne un altro, molti altri, tutti suoi – decine o un centinaio? – e qualcosa sarebbe cambiato, chissà, o ci saremmo evitati tanti guai, letterari o no: quelli causati da romanzi meno affilati e più collosi, troppo aderenti e dai quali non sai come liberarti: Scerbanenco colpisce secco e se ne va, ma non volta le spalle, fissa negli occhi fino all’ultimo, è leale, un professionista, un metodico la cui capacità di misericordia è salda, ancorata agli spazi muti della narrazione.
Né sempre né mai è del 1974, di quarant’anni fa, e potrebbe provenire dal futuro o raccontarci che cosa successe, a ridosso del termine del Risorgimento, nel 1874, se non fosse per la presenza, nel corso delle sue pagine, di certi manufatti contemporanei, quali il cosiddetto motore a scoppio e le automobili: non si sa quale fu il prima e quale il dopo, rispetto all’evento, che è di sangue e rosso, anche quando sarebbe rosa, come in questo caso: uno sciupafemmine di provincia attrae e respinge, poi, i corpi entusiasti di ragazze concorrenti, e ne esce indenne, sulle prime: ma il romanzo è la cronaca immobile di ciò che è accaduto e non è più riparabile, fin dall’inizio, da svolgersi in una Lignano Sabbiadoro pallida e ventosa, che vorrebbe resistere all’autunno che arriva: io non saprei immaginarmi la vita ulteriore di questi caratteri giovani, di questi amici e mezzi amanti, li lascio al loro dettato, li ingoierà l’autunno che la bora sta annunciando, e addio.
Qual era il tempo circolare e perfetto? La ripetizione di un destino già saputo, noto a tutti i frequentatori dei ritrovi serali e domenicali, che rinarrano la storia del vincitore di tutti gli amori, di quelli legittimi e di quelli altrui: il corsaro che propone un’altra vita alle donne di provincia e le fa rivivere, nello spazio di una fuga d’amore che non prevede un ritorno, e non prevedeva l’amore, invece. Però, collezionare le vite femminili, cioè le loro illusioni, e scappare, prima delle loro vendette, è uno sport ad alto rischio, e Paolo, questo ragazzo invecchiato per gioco e senza pensieri, va incontro alla propria tragedia.
Non è un romanzo classico che ricompone l’ellisse elastica dell’amore e della morte, quello di Scerbanenco, perché alla morte che esso indaga corrispondono più amori e funziona a sghimbescio: tutte le sue donne desiderano uomini più vecchi, o di essere vecchie subito, il che è impossibile, se è Scerbanenco a decidere; quando il donnaiolo è un risaputo contatore di frottole, è in salvo, proprio perché egli non è chi vuole far credere di essere: lambisce il pericolo e le donne, ma una superiore sapienza lo protegge: la mancanza di quella, quindi, condanna Paolo, che esce di scena e dai molti letti che ha frequentato per una bugia, quasi la sola di una carriera senza pecche, a godere dei peccati femminili: inventare uccide, e Scerbanenco, da uomo onesto e premuroso qual è, non smette di ricordarlo, romanzo dopo romanzo.