Incontro con il celebre documentarista
Romanzo Mediterraneo
«La culla dei misteri non è lontano da noi, ma qui, in Europa. È per questo che ho sempre cercato di raccontarne la vita e i segreti». Parla Folco Quilici
Mi capita spesso quando sono malinconico di perdermi tra i banchetti di vecchi libri cercando nuovi mondi da esplorare, o storie di persone che hanno vissuto vite speciali e che hanno saputo raccontarlo. Mi aggiro tra i volumi cercando qua e la qualcosa che mi emozioni. È in una di queste cacce al tesoro culturali che mi sono imbattuto nei primi lavori di Folco Quilici. Conoscevo il documentarista, scrittore e giornalista, per le sue ultime opere, ma non avevo mai letto i libri degli anni 50 e 60. È una scoperta sorprendente, quei testi trasmettono ancora oggi una freschezza e un’eleganza tali da rendere la loro lettura un vero piacere. È con questo pensiero che mi accingo a salire le scale dell’appartamento di Quilici prima di intervistarlo.
Come si è avvicinato al giornalismo?
Mi ci sono avvicinato da piccolo, essendo mio padre, Nello Quilici, giornalista e scrittore. Morì quando io avevo dieci anni. Molti amici di famiglia erano giornalisti e intellettuali, navigavo in quel mondo. Furono loro che, quando capirono la mia passione per il giornalismo, mi consigliarono di non scrivere nel suo stesso campo, perché tutti avrebbero detto che ero bravo ma che mio padre era migliore. Siccome fin da ragazzo amavo andare sott’acqua e fui tra i primissimi a occuparmi di fotografia e video subacquei, decisi di dedicarmi a questo. Allora c’erano nel Mediterraneo solamente alcuni francesi che lo facevano, per esempio il comandante Jacques-Yves Cousteau, che però aveva un piglio più militaresco.
A 15 anni avevo già una grande passione per il cinema, alle volte ci andavo tre volte al giorno. Fu così che feci l’esame alla scuola sperimentale di Cinecittà, e avendo negli anni maturato una certa capacità tecnica a fare foto sott’acqua, mi chiamarono per una spedizione nel Mar Rosso organizzata da tre musei del mare, quello di Napoli, di Roma e di Milano. Fu un viaggio emozionante sulle coste del Basso Egitto, del Sudan e delle isole Dahlak in Eritrea. La spedizione durò un anno, io avevo 23 anni e non immaginavo allora che il film che facemmo sarebbe andato al festival di Venezia. La mia fortuna fu, che oltre al lavoro collettivo per il documentario a cui parteciparono tra l’altro, il giornalista Giangaspare Napolitano e il famoso montatore Mario Serrandrei, io scrissi un libro che andò molto bene e fu pubblicato in moltissimi paesi del mondo: per la prima volta qualcuno raccontava il mondo sottomarino.
Fu un lavoro pionieristico? Avventure che oggi si potrebbero fare solamente nello spazio?
In parte sì, ma devo essere sincero, io, più che dalle scoperte scientifiche del professor Baschieri che ci accompagnava, ero attratto dalla possibilità di filmare e fotografare la vita sottomarina. Era un’emozione umana, non scientifica. Filosofeggiavo poco, seguivo la mia passione. Vivemmo tante avventure e disavventure, nel 1952 vedevi il tuo lavoro molto tempo dopo. Visionammo per la prima volta il materiale filmato solamente nel 1953, fu un’emozione fortissima, oggi incomprensibile per chi fa questo lavoro, perché sono abituati a vedere il girato subito. Ancora nel 1970, quando girammo Oceano, ci basammo su qualche fotogramma che ci dava al massimo qualche indicazioni tecnica.
Chi la aiutava?
Assolutamente fondamentale è stato l’incontro con lo storico francese Fernand Braudel, con cui ho collaborato per molti anni. Non posso non citare anche Mario Serrandrei, montatore di Visconti e di tutti i grandi del cinema, che aiutava con molta passione i giovani. Io gli volevo molto bene e lo stimavo molto. Quando, con l’avvento della televisione, iniziai a lavorare in Rai, incontrai persone come Fabiano Fabiani e Emaneule Milano, grazie alle quali non c’era limite al budget che avevamo a disposizione. Per serie di documentari di 9/10 puntate si avevano finanziamenti di uno o due miliardi di lire. Cifre oggi purtroppo impensabili. I nostri lavori erano venduti in tutto il mondo tranne nei paesi anglosassoni. Oltre che nel’Europa dell’Ovest, riscuotevano molto interesse in Giappone e perfino nei paesi della Cortina di Ferro. Un lavoro molto bello e che costò molto perché vi erano elevate spese tecniche, fu l’Italia vista dal Cielo. Ricordo anche i documentari sull’India, da cui trassi il libro India un pianeta. Un amico è andato nel subcontinente indiano a Pasqua di quest’anno e mi ha detto che tranne i due capitoli sull’India degli anni Sessanta,il libro rimane un’ottima guida. Rai Storia trasmette ancora la serie sull’Islam, che furono i primi documentari a colori che girammo. Raccontai, con Carlo Alberto Pineti, gli islamici di tutto il mondo, dagli Stati Uniti fino alla Cina. Era un Islam molto tollerante, non avemmo mai alcun problema.
Una volta le diversità tra le varie culture erano immediatamente visibili. Quali sono i luoghi che l’hanno colpita maggiormente?
Lo sconosciuto spesso lo trovi anche fuori dalla porta di casa. Avendo avuto la fortuna di lavorare con Fernand Braudel, uno dei più grandi storici europei, compresi che era l’Europa uno dei luoghi più interessanti. I libri dello storico francese erano conosciuti, pur non integralmente, anche oltre la Cortina di Ferro e questo ci permise di lavorare in questi paesi. La Romania era un disastro, mentre a Mosca si andava in giro facilmente, io ci tornai con mia moglie che era la mia assistente e giravamo con la telecamera senza problemi. A Praga ricordo una serata all’Istituto di Cultura Italiano in cui i ragazzi dicevano quello che volevano e avevano idee chiarissime. Il paese invece in cui non sono mai stato era la Ddr: lì penso mi avrebbero arrestato subito. Nessuno prima di noi aveva mai raccontato i paesi Oltre Cortina. Anche il nord dell’Europa era bellissimo, paesi come la Svezia, la Norvegia avevano una cultura molto diversa che poneva problematicità a chi la voleva raccontarla perché si distingueva a tutti i costi dal resto d’Europa.
Avevate previsto il crollo della Cortina di Ferro?
Avevamo messo al centro delle nostre riflessioni una possibile unità della cultura europea nonostante le mille diversità. Un concetto allora molto arduo visto l’esistenza della Cortina di Ferro. Di certo, nemmeno noi immaginavamo un crollo così veloce, Braudel per esempio non ha fatto in tempo a vederlo.
Come nacque il rapporto con Braudel?
Nacque proprio sul Mediterraneo: lavorammo insieme per una serie di 9 puntate. La prima sull’archeologia marina, era un progetto in collaborazione con spagnoli e francesi. Fu un lavoro bellissimo. La Rai, che nel frattempo aveva affidato a qualcun altro una seconda serie sull’archeologia marina, si trovò però nei problemi perché il lavoro non fu portato a termine. Fu un disastro e ci chiamarono per riprendere in mano il progetto. Furono spesi due o tre miliardi e creammo una seconda serie di documentari molti interessanti, ma poi successe un fatto strano: tutto il materiale andò perso in un trasloco durante la nascita di Raitre. Raiuno aveva deciso che sarebbe stata Raitre a occuparsi di documentari. Una gru meccanica ha probabilmente messo la cassa in un posto e non ha mai segnato dove. Fa rabbia se si pensa che per girare quelle scene spesso abbiamo anche rischiato molto, per farle a volte mi dimenticavo che il tempo scorreva sott’acqua e avevo bisogno di gente che mi venisse a ripescare prima che diventasse troppo tardi. Spero che la cassa salti fuori, un giorno; magari cercando un documentario sui macachi del Centrafrica…
Come si lavorava in quegli anni?
Si premiava ancora la creatività. Un giorno Fabiano Fabiani mi chiamò una sera per dirmi che si era dimenticato di dirmi che i francesi avevano chiamato la Rai a collaborare per una serie e mi disse che la mattina dopo dovevo essere a tutti i costi a Parigi. Io presi un aereo la sera e la mattina mi trovai a una riunione in cui esperti e scrittori parlavano solamente di filmare musei sul mare. Quando il responsabile del progetto mi chiese cosa pensavo, io, che non avevo nulla da perdere, dissi: mi sa che nessuno di voi ha mai fatto il bagno nel Mediterraneo, se lo aveste fatto, vi sareste resi conto che ci sono porti, mare, persone, storie da raccontare… Furono mandati via tutti gli esperti e la mia idea fu vincente. Feci il lavoro con uno spagnolo che la pensava come me e girammo dal Portogallo fino alla Turchia. Fu un lavoro bellissimo, l’unica pecca è stato il montaggio francese, troppo logico e non creativo. Inoltre hanno buttato tutti gli scarti che io di solito ho sempre tenuto e che oggi ho regalato all’Istituto Luce dove sto sistemando tutto l’archivio che ho creato negli anni.
Oggi si parla molto di ecologia, si fa a gara a fregiarsi delle bandiere blu, ma il mediterraneo è in realtà sempre più inquinato.
Io non faccio più il bagno, ironicamente la situazione dimostra come è forte il nostro sistema immunitario, perché secondo me dovremmo essere tutti morti. Ti racconto un fatto personale, qualche anno fa mi nominarono presidente dell’Icram, l’Istituto che raccoglie gli scienziati del mare italiano, vi erano con me anche tre o quattro scienziati molto bravi, però nonostante avessero acquistato una nave di ricerca con tanto di equipaggio e ci fossero più di 1000 persone messe lì dai partiti, si faceva poco o nulla. Al massimo cinque o sei lavoravano. Una volta ricevetti i sindacati, io che non avevo esperienza su come interagire con loro chiesi a un amico imprenditore come fare, lui mi disse non parlare, stai zitto. Io così feci. Dopo averli ricevuti incontrai anche i sindacati indipendenti che furono gli unici a dirmi che il problema era che nell’ente non si faceva nulla.
La maggior parte delle persone non si fida dello stato, pensano, per esempio, che non vale la pena riciclare perché tanto poi mischiano tutto, che anche se si spendono soldi per fare i depuratori, poi non li usano. Pochissimi però evitano di produrre meno spazzatura e inquinamento modificando i loro comportamenti. Eppure questo basterebbe a risolvere il problema alla fonte.
Stai facendo un discorso utopistico, temo che ci vorranno secoli prima che la gente comprenda questo. I miei nipotini che sono cresciuti in Giappone, Stati Uniti e Germania sono la mia speranza perché in effetti vivono in società che cominciano a comprendere questo discorso. Purtroppo però nemmeno questi paesi fermano le stragi di specie marine in estinzione, una tragedia di cui pagheremo il conto per anni.
Che lavori sta facendo ora?
Da quando l’ecologia è diventata un tema molto discusso e sondato, ho deciso di occuparmi principalmente di storia, anche grazie agli insegnamenti di Braudel. A giorni dovrei incominciare il progetto che ho vinto con il ministero per raccontare lo sbarco in Sicilia. Oggi il mondo dei documentari è diventato così faticoso e avaro di finanziamenti che preferisco scrivere libri. Sto poi continuando a mettere a posto tutto l’archivio che ho donato all’Istituto Luce, per fortuna ho una montatrice che lavora con me da 40 anni e conosce benissimo tutto il materiale filmato.
Sta scrivendo nuovi libri?
Mondadori mi dà ancora possibilità di scrivere cosa penso. Quando facevo lavori pionieristici non conoscevano o non capivano quei temi e quindi non riuscivano a censurarmi, per me che sono un anarchico libertario, era una fortuna. Il libro su cui sto lavorando è un romanzo storico, il racconto di una piccola isola dimenticata durante la seconda guerra mondiale, isolata per due anni e mezzo dopo che era affondato il traghetto. Il paese è occupato dai tedeschi e sconvolto dall’arrivo di una mina. Sono tante storie vere di varie isole messe insieme.