Verso Expo 2015
Ritratto di Sicilia
Prima Pirandello e Guttuso, poi Consagra, Accardi, Franchina e Sanfilippo, quindi Giacomo Alessi e Carmelo Candiano: parte da Favignava una mostra dedicata a un'isola
«Artisti di Sicilia». Il titolo della mostra, ideata da Gianni Filippini e sponsorizzata dalla Fondazione Roma, in cartellone fino ad ottobre a Favignana, nei padiglioni dell’ex tonnara Florio da poco restaurata, dà già l’idea di un ritorno al passato. Chiamare a raccolta e portare in passerella oltre cento artisti a rappresentare una sola regione ci riporta indietro agli anni del fascismo, quando appunto la selezione degli autori da portare alla Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia avveniva su base regionale. Un’altra Italia, certo, più povera, autarchica, arroccata. E altre motivazioni: la prevalente allora era tenere a bada la cultura, organizzare e manipolare il consenso, ampliare la rete del controllo. Ma chi ha detto che depurata di queste ragioni la ricetta non possa essere ancora utile? Se non altro per correggere le distorsioni del mercato e del sistema museale che con rarissime eccezioni, concentra i suoi effetti e la sua attenzione da Roma in su, frenando la circolazione, impedendo lo sviluppo di tendenze e talenti, la conoscenza e la riconoscibilità stessa degli artisti, che è presupposto indispensabile per fare carriera e cassetta, tagliando fuori anche al centro Nord autori che non orbitano in aree metropolitane.
Tra i cento e passa autori invitati a sfilare sulla ribalta di Favignana, da dove poi la mostra partirà in trasferta per Catania, la Versilia e l’approdo all’Expo di Milano del prossimo anno, non più di una trentina sono riusciti a costruirsi reputazione anche fuori dei confini italiani emigrando o esponendo a Nord. Gli altri, tra cui pure figurano autori di buona caratura, sono rimasti invischiati in un giro di gallerie e occasioni di livello territoriale che limita anche crescita e confronto. A volte anche pigrizia, mancanza di coraggio, paura di mettersi in gioco, lasciare questa terra ammaliante, «che ti pianta le radici nella pancia e nel cuore», come dice Giuseppe Iannaccone , un collezionista meridionale che ha fatto fortuna a Milano, ed è venuto qui a Favignana ad accompagnare i prestiti concessi al impreziosire questa mostra. Una terra sovraccarica di passato e di nostalgia, di emozioni forti e piccole furbizie, che possono trascinarti in alto verso vette impensabili ma anche soffocarti se non sai regolarne il dosaggio.
La terza sensazione di ritorno al passato deriva dalla cabina di regia, affidata a Vittorio Sgarbi, un critico che nel valutare il contemporaneo tiene sempre fisso lo sguardo all’indietro, alla ricette tradizionali della scultura e della pittura dei secoli d’oro su cui ha fondato formazione e successo professionale e dalle quali non si discosta. Facendo la tara alle impuntature, ai capricci da dandy, ai calcoli di convenienza che costellano le sue scelte, compensate in parte da guizzi e intuizioni eccentriche e stimolanti, quest’aura di mirata inattualità porta forse in dote alla mostra più di quanto le tolga. Assegnandole il merito, grazie ad una carrellata ampia di lavori di qualità, di ergere un argine molto netto, facilmente riconoscibile e in controtendenza tra arte e creatività, distinzione che la deriva imboccata da gran parte dei critici modaioli e in carriera del contemporaneo, ha quasi annullato. E ancor più di rimettere in discussione il teorema in gran voga che nel misurare l’arte di oggi e il suo impatto estetico e sociale riconosce al concetto il primato su ogni altro metro e criterio, al procedimento la supremazia sull’opera stessa. La copia che sovrasta l’originale, la superficie che sostituisce la profondità, lo spettacolo che rimpiazza l’emozione. Relegando le tecniche dal passato, pittura e scultura, a lingue morte.
Difficile per il visitatore della mostra provare questo senso di estinzione e naufragio di fronte al capolavoro anni cinquanta di Guttuso, la Vucciria, all’ampiezza e all’impatto del suo impatto narrativo, all’intensità di una tavolozza e di uno scavo di segno che supera i limiti di un’impostazione ideologica, il realismo, ormai tramontata. Impossibile non essere catturati dall’angoscioso, inquietante spettacolo di quella donna sformata e dormiente che Fausto Pirandello ha messo in posa e ritratto in un quadro del 1927. Non riconoscere la forza profetica di precursore del suo autore: quel corpo sgraziato e dolente ci parla di vecchiaia e di morte, strappando ogni velo d’illusione, e anticipando di cinquant’anni i lavori sullo stesso tema che hanno sigillato la fama di Lucien Freud.
E giù il cappello di fronte alle due splendide tele di Piero Guccione, esposte nel secondo padiglione. Lo sguardo che si perde nel mare, svaporando in lievi sfumature e impennate di colore. E insegue il mistero dell’infinito. Viva la pittura se può raggiungere queste vette. Se ci fa riaffiorare dentro queste emozioni.
Attorno a questi capolavori Sgarbi ha cucito una fitta trama di altre suggestioni, altre curiosità, seguendo per datarle il filo della storia e del tempo. La Sicilia del primo novecento intrisa di suggestioni liberty, quella degli anni trenta che si converte ai vortici del futurismo, oppure rielabora a suo modo il ritorno all’ordine del realismo magico. La Sicilia della nobiltà al cavalletto che si specchia in un autoritratto anni 30 di Topazia Alliata, oggi centenaria. La Sicilia degli artisti che fuggono e trovano fortuna altrove, ma senza perder radici. Attardi (nella foto) che alla terra d’origine paga dazio con la sua tavolozza infiammata. Bruno Caruso che ci ripesca il gusto di mantenersi in bilico tra mito e fantasia. Lillo Messina che aggiornando le sue nostalgie ritrae il mare e le isole come sfondo e corpi sospesi nel cosmo. Salvatore Provino che si libera dell’influenza di Guttuso traducendo le emozioni in un ricamo di graffiti gessosi. Croce Taravella che trasforma anche le strade di New York o di Roma in un flusso di facce da via vai sul corso. Giuseppe Modica che ne rielabora gli echi per evocare un altrove di tempo e sole perduti. Solveig Cogliani che a Roma, dove fa il magistrato, ha riscoperto la sua vocazione per la pittura e la forza delle radici siciliane in una tavolozza di spudorati colori e segni gridati. E poi Consagra, Accardi, Franchina, Sanfilippo che aprendosi al mondo ne rileggono la voce lungo i sentieri della pura astrazione, che Sgarbi, per vocazione personale, trascura qui a torto di valorizzare.
Salutare il confronto con l’arte del continente, del mondo esterno, di una realtà altra. A chi è rimasto, sembra mancar l’aria. La voglia della sfida, l’ansia di raccontare il mondo oltre Palermo, Scicli, Catania o di cercare sguardi meno abituali per le voci di dentro. Non la tecnica, la buona pittura, il talento, lo stile. Ma il salto nel vuoto sì, di quello di avverte il difetto. È la sensazione di chiusura che ti lasciano in bocca le altre sale con cui si chiude il percorso, che pure non lesinano chicche come la struggente e sfibrata parete di riquadri smaltati di Giacomo Alessi, un ceramista di Catagirone Come la sagoma della Sicilia che lo scultore Carmelo Candiano (nella foto) ha scalpellato su una lastra di ferro laccata di rosso, i bordi accartocciati da un groviglio di lettine compresse. Come le due terracotte di uomini in mutande modellate da Giacomo Rizzo: le rughe che scarnificano le facce, i muscoli flosci che pendono a brandelli.
Guardare a quel che succede aldifuori, forse la via d’uscita dall’impasse è anche questa. E la verità del di fuori è ad un passo. Come la tragedia dei migranti, dei nuovi schiavi portati dai barconi, al quale Giovanni Iudice, quarantenne di Gela, dedica una grande tela a fine percorso di folgorante impatto. Su uno sfondo cupo la massa di clandestini di colore appena sbarcati, occhi sbarrati, corpi contratti, una madre che solleva in alto un bambino, forse morto durante la traversata ci gridano contro dolore, paura, sgomento. Grande esempio di pittura di realismo e solidarietà umana. Ma è una messa in scena che non vuole, non può finire. Sul bordo in basso l’autore ha incastonato un involto di plastica che buca il quadro. Poi, contro il parere di tutti, ha voluto prolungare l’opera con un altro inserto: un paio di scarpe sformate che sporgono in avanti. Ci interrogano, dando altra voce a quel coro di naufraghi. No la pittura non è bastata, non basta. Serviva quel punto di domanda in più. E quale altra terra più della Sicilia, racchiude così tante domande in attesa di risposta?
Accanto al titolo, un intarsio ligneo pittorico di Nino Gambino intitolato «Omaggio a Guttuso – Vucciria».