Racconti del peccato/6
Perfect Life
«Non che non fosse gentile, la signora. Però ad Ana faceva un po’ impressione. Pareva sempre sul punto di saltarle al collo e ucciderla, come aveva fatto in tante pellicole»
Tutto quel bianco la accecava e le toglieva le forze. Eppure aveva voluto lei i divani in pelle e i tavoli bassi, su cui erano posati con estrema eleganza due bonsai, perfettamente simmetrici. L’architetto avrebbe preferito un effetto optical. Mi creda, il bianco e nero non passa mai di moda: una cosa piuttosto imbarazzare da dire, proprio a lei. Si era limitata a fare un sorriso un po’ di traverso, giusto una piega sulle labbra ancora belle, e gli aveva chiesto con estrema gentilezza se non preferisse essere sostituito.
– Ho un carattere veramente difficile – si era scusata poi lei, tirando fuori lo sguardo da vecchia cerbiatta.
E lui a tanta delicatezza si era inchinato che pareva un giapponese. Assolutamente formale e in cuor suo maledicente.
Mise di nuovo a fuoco. Controllò di non avere traccia di sporco sui guanti. Il pavimento lucido avrebbe dovuto tranquillizzarla, ogni cosa era stata fatta in modo perfetto. Si guardò nello specchio facendo finta di non vedere le rughe, sottili, da niente. Niente che il professor Martini non potesse aggiustare in venti minuti. Lei non sentiva nemmeno più il dolore dell’ago. Si sorrise, compiaciuta.
– Vuole che le prepari un tè? –
Ana era così premurosa. Forse avrebbe dovuto ricordarsi di lei. Prima o poi avrebbe dovuto pensare anche a quello. Una specie di formalità, bastava decidere a chi lasciare cosa. Sapeva per certo che Renzo aveva lasciato metà della sua azienda a un orfanotrofio in Kenya. Quei magnifici jeans. Quel mucchio di milioni e quella vita passata da un continente all’altro, per poi finire sotto terra. Come tutti.
– No, Ana. Grazie. Ha già dato da mangiare ai gatti? –
La ragazza fece cenno di sì con la testa, andandole più vicino perché lei potesse vederla meglio. La vecchia ormai era cieca come una talpa, hai voglia a gioielli di brillanti. Ana prendimi gli orecchini di smeraldo, rimetti a posto le perle. La tiara Tiffany su quei quattro peli neanche si vedeva. Pietre preziose sprecate. E quella mania dei guanti che non toglieva mai, li cambiava al minimo cenno di sporco. Nemmeno li faceva lavare, li buttava via. Tutti uguali e delle stesso colore, un cotone ecru che da lontano poteva sembrare pelle. Comunque ad Ana non faceva nessuna pena. La signora aveva avuto tutto quello che aveva voluto. L’intero mondo ai piedi, per cominciare. Lei invece in mezzo al lusso degli altri c’era arrivata dopo anni di bordelli, un aborto e diversi uomini maneschi. Poi era diventata la serva della regina, la custode del mausoleo. Sempre a dare ordini in sua vece, alla cuoca, al giardiniere, all’autista.
-Tu devi cercare di capire cosa mi faccia piacere, senza che io te lo chieda – questo le aveva detto la prima volta che si erano incontrate. A capire il piacere degli altri avrebbe dovuto essere abituata. A fermarsi un momento prima che. A continuare in modo da. Ad accelerare o diminuire il ritmo. In quella casa Ana ci era arrivata senza referenze, tramite il prete del quartiere che ne aveva apprezzate le qualità. La signora non era nemmeno religiosa ma il prete era cugino di un produttore, che durante una cena aveva sentito le sue lagnanze sulla governante, divenuta improvvisamente allergica al pelo dei gatti.
– Quel continuo rumore di starnuti mi fa diventare pazza. E le mani le si riempiono di bolle –
Bisognava trovare subito un’altra, era stata la parola d’ordine di quel ricevimento interminabile, a cui avevano partecipato pochi uomini potenti e molte stelline appena nate. Oltre alla signora, appassito ma irrinunciabile sigillo di eleganza. Il giorno dopo il passaparola aveva funzionato e Ana era stata convocata. Era restata un’ora in piedi a farsi scrutare. Poche domande, ogni tanto una lunga pausa in cui la signora si guardava i guanti con espressione accigliata, poi era stata scelta. Non poteva sapere che durante tutto quel tempo l’altra aveva pensato a cosa inventare per non uscire quella sera con l’ultimo degli uomini detestabili della sua vita, affidando entrambe le decisioni al numero di minuti che ci avrebbe impiegato il sole a smettere di battere sul secondo bonsai, per poi sparire del tutto dalla sala. Le decisioni migliori si prendono al tramonto, era una delle sue celebri frasi del cazzo. Numero pari: niente uscita. Avrebbe assunto la cameriera nuova e avrebbe passato la sera a istruirla. Dispari: l’avrebbe mandata via e avrebbe invece iniziato a prepararsi per uscire. Controllò la sveglia Cartier incastonata in un blocco di cristallo, poi il minuscolo orologio ruotando il polso ma solo con un leggero movimento degli occhi, in modo che l’altra non la vedesse. Tutto scritto troppo piccolo, non avrebbe potuto leggere con chiarezza i minuti, nemmeno se avesse avuto venti anni di meno. Allora cominciò a contare mentalmente i secondi, assumendo quell’espressione meditabonda e concentrata che era stata più volte premiata a Berlino e a Cannes. Ana pensò che riuscisse a dormire a occhi aperti o che fosse morta, per come respirava piano. Il sole se ne andò alla conta del numero trecentoventisei, così la cena venne annullata e la nuova governante presa in prova. E subito le venne impartito quell’unico ordine. Il più difficile di tutti. Quello che si poteva sempre sbagliare.
Non che non fosse gentile, la signora. No, era molto educata. Però ad Ana faceva un po’ impressione quel modo che aveva, di dire le cose a denti stretti. Pareva sibilare. Pareva sempre sul punto di saltarle al collo e ucciderla, come aveva fatto in tante pellicole. La pazza omicida seriale era proprio una delle sue specialità. Ana ce li aveva tutti i suoi film, li aveva comprati di nascosto e li teneva nell’armadio, uno sull’altro, nello spazio per i vestiti lunghi, come un muro finto a ridosso della parete interna. Vecchi bianco e nero. L’eleganza di altri tempi alla padrona era restata addosso come l’odore acre di un profumo che sta per finire, quando in fondo alla boccetta rimane solo alcool. La governante aveva imparato a gettare la testa indietro come lei, a guardare un po’ di traverso, come faceva quando qualche protagonista voleva abbracciarla. Non le pareva che amasse gli uomini, si capiva dall’espressione sofferente che le veniva quando le andavano troppo vicini. Era una donna insondabile: non rideva, non piangeva, non fumava, non amava nessuno al mondo. E dalle tre alle sei, ogni giorno, spariva. Aveva una parte della casa a lei riservata in cui la cameriera poteva entrare a pulire ma solo ogni tanto, su sua precisa richiesta.
Nascosta nel piccolo bagno, in penombra. Seduta su una sedia, con la schiena gelata contro il muro, i guanti gettati nel cestino. una lametta a inciderle le mani in tanti piccoli tagli, lei ripassa la sua parte. Rivede il suo primo film, l’unico che le viene proiettato sempre nella memoria. No che non poteva crescerla, suo padre. Ci avrebbe pensato la sorella della mamma. Meglio per tutti. Lui la portava al cinema ogni domenica, poveretto. Vestita di organza e con guanti ecru. Una bambina simile a una bambola morta. E nemmeno la sfiorava, per non sciuparla. Solo quando le luci si spegnevano, lui le prendeva la mano. Ma quando tornava la luce, era già tutto finito. Una sosta per un gelato, sempre lo stesso gusto: fragola e limone. La salutava con una carezza davanti alla porta di zia Clara. Prima di entrare, lei buttava i guanti nel bidone della spazzatura. Benedetta bambina, possibile che ogni settimana ne perdi un paio: era la filastrocca preferita della zia. Chissà se ci credeva davvero.
Si tagliò più in profondità, poi trascorse qualche ora intontita, guardando sorridente il sangue che si rapprendeva.
* * *
Roberta Lepri è nata a Città di Castello (Perugia), si è laureata in Lettere moderne all’Università di Siena con una tesi su Michelangelo. Vincitrice di numerosi premi letterari, ha pubblicato i romanzi Sulla terra, a caso (ExCogita, 2003), L’Ordine inverso di Ilaria (Guida, 2005, vincitore della X edizione del Premio Cimitile), L’Amore riflesso (Guida, 2006). Con Avagliano editore ha pubblicato La ballata della Mama Nera (2010), Il volto oscuro della perfezione (2011) e Io ero l’Africa (2013).