Pier Mario Fasanotti
Introduzione a un grande classico

L’inconscio di Montaigne

Antoine Compagnon, illustre professore del Collège de France, commenta con approfondita leggerezza 40 brevi passi degli “Essais”. Dimostrando la portata anticipatoria del pensiero del filosofo francese

Michel Eyquem de Montaigne (Bordeaux, 28 febbraio 1533 – Saint-Michel-de-Montaigne, 13 settembre 1592) non fu, come molti credono, un ricco e pigro signorotto di campagna con la schiena sempre curva sui classici del pensiero. Ebbe vita alquanto attiva, nell’amministrazione pubblica e nella diplomazia fino a quando decise di passare molte ore rintanato nella stanza del castello di famiglia, comprato dal bisnonno, nel Périgord. Nel ’65 sposò l’altolocata Françoise de la Chassaigne, verso la quale non ebbe se non svagate manifestazioni d’affetto. Per lui quel matrimonio contava poco, tanto è vero che dormivano in due stanze separate (a dire il vero questa era pratica diffusa, a quei tempi). Di formazione giuridica, spostò la sua attenzione sulla filosofia, dalla quale trasse non solo citazioni e osservazioni di buon senso, ma anche considerazioni collaterali che talvolta sono di straordinaria profondità. Talune anticipatorie a tesi formulate secoli dopo, comprese quelle di Sigmund Freud. Detto tra parentesi: il medico viennese, che esplorava le anime dei pazienti col vizio del pansessualismo, quante idee “rubò”, a cominciare dai miti greci e da Schopenhauer? Filosofo e non inventore, sostiene il francese Michel Onfray (tutte le opere sue sono edite da Ponte alle Grazie) in un serrato confronto teoretico.

copertinaMontaigne non parlò quasi mai di sé, come spiega (bene) il libro di Adelphi (di Antoine Compagnon, Un’estate con Montaigne, 136 pagine, 12 euro: un commento a 40 brevi passi degli Essais, ndr). Forse unica eccezione riguarda una sua rovinosa caduta da cavallo, dai tratti sia drammatici che comici. Nei suoi Saggi, che son tornati oggi di gran moda, racconta di aver preso un cavallo «molto mansueto ma nient’affatto robusto». Erano giorni agitati e bellicosi per la Francia. Un suo uomo salì in sella di un cavallo veloce e possente, volendogli andare incontro. Il destriero s’infervorò così tanto nella campagna che travolse “il piccolo” Montaigne e l’animale deboluccio che lo stava portando a casa. Lo studioso fu disarcionato e fece un volo di parecchi metri, nella desolata zona della Dordogne. Vivace narrazione di un infortunio, ma anche spunto per una riflessione acutissima. Dopo la caduta non ricordò nulla, eppure si rialzò e dette ordini ai suoi fedeli. Montaigne non si limita alla narrazione della sua caduta, ma ragiona su quel lasso di tempo in cui, in modo che oggi diremmo inconscio, e s’interroga sull’identità, sulla relazione fra corpo e mente. Si pone una domanda non da poco: che cosa siamo, dunque, se il nostro corpo si muove, se parliamo, se diamo ordini all’insaputa della nostra volontà? Dov’è il nostro io? Scrive Compagnon: «Quell’episodio, prima di Cartesio, prima della fenomenologia, prima di Freud, anticipa secoli di inquiete riflessioni intorno alla soggettività e all’intenzionalità; e concepisce una sua personale teoria dell’entità, precaria, discontinua».

Da buon magistrato, Montaigne riflette sulle cause delle liti e delle guerre e giunge alla conclusione – senza mai mettere da parte un sano e saggio dubbio – che la maggior parte dei conflitti, individuali e collettivi, nascono da un fraintendimento linguistico. Da uomo del Rinascimento qual è, l’autore sei Saggi ironizza sulla consuetudine medievale di accomulare glosse, che Rabelais paragona agli escrementi – faeces literarum – propugnando il rigore di un Platone, di un Plutarco e di un Seneca. Va oltre quando aggiunge allo stemma di famiglia (raffigurante la bilancia) la seguente frase: “Che cosa so?”.

Divertente senza dubbio il capitolo (L’ermafrodita) che Montaigne dedica allo strano fenomeno di una ragazza che si ritrova sorprendentemente un maschio. E riporta la leggenda, ampiamente seguita in certe zone, secondo cui le fanciulle dovrebbero astenersi dal saltare. Sì, perché un salto brusco potrebbe far scendere d’un tratto gli attributi sessuali maschili. Nello stesso tempo minimizza simile prodigio, e noi lo immaginiamo nell’atto del sorridere: «La causa di tutto ciò – scrive Montaigne – è la forza dell’immaginazione». Insomma: a furia di pensarci, il sesso spunta loro in mezzo alle gambe. Acutamente Compagnon annota: «Non è l’invidia del pene teorizzata da Freud come stadio dello sviluppo sessuale delle bambine, ma un desiderio femminile, che per Montaigne è misterioso… se si desidera troppo il maschio, la donna finisce per diventarlo». Chiosa l’autore del bellissimo libricino Adelphi: «Difficile, anche qui, decidere se Montaigne dica sul serio».

 

 

 

 

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