Lettera dall'America
Ellis Island 2014
Vista da lontano la tragedia dei migranti morti nel Mediterraneo senza identità e senza più speranze suona come un campanello d'allarme per una società morente
L’indifferenza, per fortuna, non mi ha mai contagiato. Anche il sonno delle coscienze, causato soprattutto dal bombardamento dei media televisivi, come ricordava Susan Sontag, può provocare assuefazione specie nei confronti di notizie terribili che non vorremmo mai ascoltare. Ce ne sono tuttavia alcune che dopo, quando ormai le hai sentite o viste, non ti fanno essere più come prima. Così, per me che mi sono occupata e continuo ad occuparmi di razzismo e della condizione dei neri negli Stati Uniti e in parte anche in Africa, le notizie degli ultimi giorni sono state più devastanti del solito.
Mi riferisco a quei neri africani che tentavano di raggiungere le coste italiane e che sono morti soffocati nella stiva di un barcone. A loro è stato impedito di venire a prua sulla nave perché, è stato detto, altrimenti il natante si sarebbe ribaltato. E così sono morti soffocati. Non hanno un nome, un’identità. Non si sa esattamente da dove vengano. Si sa solo che scappavano da qualcosa così terribile da far loro mettere in conto anche di perdere la vita. E così è andata: l’hanno persa, trattati come bestie. Non avevano niente. Erano armati solo della speranza di un nuovo inizio per sé e per i loro figli. In quella confidavano.
Dopo un’estate che ci ha raccontato solo storie di orrore e di morte la mia reazione a quest’ultima è stata un pianto dirotto, a singhiozzi che non mi è riuscito immediatamente di calmare. Non voleva smettere. Ero disperata. Era una reazione alla mia impotenza. La stessa che avevo avuto di ritorno da un Sud Africa appena liberato, con Mandela presidente, dove ero stata invitata per fare una conferenza. L’ultima cosa che avevo visto era stato Soweto, la grande tendopoli a cielo aperto di circa un milione di persone dove non c’erano né elettricità né un sistema fognario. Mi avevano colpito gli sguardi e gli occhi grandi dei bambini che a differenza di altri paesi poveri ti venivano vicino, ti sorridevano, ma non chiedevano elemosina. Volevano solo fare amicizia, parlarti e in alcuni casi abbracciarti.
Poi c’era stato il museo fotografico messo in piedi dopo i riots del 1976. Una strage voluta dal governo dell’apartheid con immagini tanto forti che la mia collega statunitense non si era sentita di guardare nella loro interezza. Io invece apparentemente calma ero voluta andare fino in fondo. Avevo visto una per una le foto agghiaccianti di quelle madri con i figli piccoli trucidati dalla polizia tra le braccia. Che di fronte ai poliziotti li imploravano con gli occhi, domandando loro il perché di quell’inutile violenza. All’aeroporto dopo avere salutato la collega quando ci imbarcavamo su aerei diversi (lei per New York, io per Roma) le avevo sorriso e avevo anche scherzato con lei. Mi sembrava di essere calma e credevo di avere introiettato l’orrore di Soweto e quello del suo piccolo museo. Ma come diceva il Kurtz di Cuore di Tenebra di Conrad e ripeteva quello di Marlon Brando del famoso film Apocalypse Now «the horror non si dimentica mai». «The Horror, the horror» ripeteva infatti poco prima di morire il Kurtz di Apocalypse Now attraverso la voce bassa, profonda, venata di una consapevolezza dietro la quale non ci si può nascondere e che rimane il testamento del grande attore americano. Quello stesso orrore che ti perseguita per sempre quando hai visto o ascoltato certe cose. Soprattutto quando, come le immagini fotografiche del piccolo museo di Soweto, lo riportavano a galla, come il pane secco messo nel latte.
Così appena rientrata a Roma e dopo aver chiuso la porta di casa, con ancora la valigia in mano, sono scoppiata in un pianto dirotto, un pianto come quello dei bambini, disperato e inconsolabile, nel tentativo di mondare quelle immagini, quelle sensazioni. Specialmente quella di essere bianca e di sentire quanto i bianchi siano stati devastanti per i neri dell’Africa attraverso l’orrore del processo di colonizzazione. Un processo descritto dal grande intellettuale nero Frantz Fanon che partecipò alla guerra di liberazione algerina. Non a caso chiamava i popoli soggetti a quel processo violento e distruttore «I dannati della terra».
Così vale la pena di menzionare l’esempio del genocidio perpetrato da re Leopoldo del Belgio che in circa 20 anni, dal 1890 al 1910 ha fatto uccidere in Congo (eh sì, ha fatto uccidere, perché’ lui personalmente non ha mai messo piede in terra africana) dai 5 agli 8 milioni di neri. E se questo non è un olocausto non so come si possa denominare! Purtroppo però, come la chiamava Conrad, “la soglia dell’invisibilità” e ancora peggio quella dell’indifferenza sembrano continuamente rimuovere e cancellare dall’immaginario collettivo bianco e occidentale la storia e le vite di questa gente.
Generalmente mi occupo di “cose” americane. In questo caso tuttavia non posso non fare un collegamento e riandare con la memoria ai nostri emigrati italiani che, più di un secolo fa, stipati, come nei carri bestiame, nelle stive delle grandi navi dirette nel nuovo mondo, quando riuscivano a superare il lunghissimo viaggio (e molti di loro non ce la facevano proprio per le condizioni inumane del tragitto e della logistica), venivano sbattuti negli stanzoni di Ellis Island e lì trattati come intrusi. In fondo quello che volevano, come i neri dei barconi che traversano oggi il nostro Mediterraneo, era solo un futuro migliore. Una possibilità di sopravvivere. Ma questo in molti sembrano esserselo scordato.