Errico Buonanno
Racconti del peccato/5

Edipo a Colonia

Non si ricorda, dottore, va bene. Ha rimosso. Succede, lei insegna, coi pezzi scabrosi del nostro passato. Da parte mia ricordo benissimo quel giorno d’ottobre in cui mi presentai al suo studio

Dottore, incontrarci in un caffé è un incidente che sfiora il banale. Poteva succedere anche prima, risparmi perciò quell’imbarazzo. Ne abbiamo viste anche di peggio, la sua sembra solo ingenuità.

A meno che, come mi dice, abbia davvero un vuoto mentale. E la capisco: lei è un’icona, per lei il tempo non passa. Ma quanto a me sono cambiato, e riconoscermi è difficile, ora che gli anni hanno posato sui capelli un po’ d’argento e brillantina, e la mia faccia, a sessant’anni, ha subito gli affronti che ha subito il paese. Ma vesto abiti eleganti. Fumo, lo vede. E, non mi chieda come, passo le mie giornate qui, guardando il mondo con cinismo.

Non si ricorda, dottore, va bene. Ha rimosso. Succede, lei insegna, coi pezzi scabrosi del nostro passato. Da parte mia ricordo benissimo quel giorno d’ottobre in cui mi presentai al suo studio, e prima ancora di parlare mi soffermai sulla sua bella collezione di reperti archeologici: una sfinge d’avorio m’osservava inquietante. «Nome?», mi chiese lei, compunto. «Edipo». «Cognome?». «Di Polibo». «Posso sapere che significa?», «È il patronimico. Polibo è…», «Suo padre». Annuii e lei incalzò: «Perché esita?», «È un politico. Sì… di una certa rilevanza. Lo sono anch’io, d’altronde, vede».

Dottore, arrossisce? Che fa? Guarda l’orologio? Prego, si metta il cuore in pace: non crederò che lei abbia fretta. Ora che Vienna è diventata Germania anche voi austriaci siete votati all’eterno.

Politica, certo, dicevamo. Significava ancora onore. Avevo vinto le elezioni a Colonia: primo mandato, un’avventura eccitante. Di questo, però, non sembrava curarsi. Piuttosto, badava al mio privato. «E il suo nome? – insisteva – È straniero?». «Greco». «Significa?». «Piedone». Non rise, ma chiese: «Nutre dei risentimenti verso suo padre, per questo?»

Ma che domande che faceva, dottore! Avrei dovuto raccontarle degli studi classici di papà, la formazione della classe dirigente dei bei tempi del Kaiser. Ma avevo fretta di arrivare al dunque, anche se lei continuava a interrompermi: «Ora mi dica di sua moglie». E che dirle? Che l’avevo sposata per convenienza politica? Mi creda, quello che ha inventato è poca cosa, non ci voleva psicoanalisi per comprendere certi meccanismi. «Si chiama Giocasta. Ha quindici anni più di me e non l’amo». Perché mi sembrò tanto turbato? «Ma lei non si occupa di questioni di cuore. Glielo racconto per spiegarle chi sono. Un responsabile, dottore. Un uomo che conosce la ragion di Stato. Odio mia moglie e non la lascio. Vorrei abbandonare la città e rimango al mio posto. E perché? Ovvio: per il popolo. O per la rispettabilità, per il destino che mi ha messo ai suoi vertici».

Dottore, lo sa. Lei lo sa bene: parlavo da saggio, da persona sensata. Mi aveva scambiato per uno dei tanti disturbati che visitavano il suo studio, e solo allora si rendeva conto che forse erano altri gli argomenti che potevo offrirle. La politica, in fondo, era una branca della psicologia: poteva trattarmi da collega.

«Non sono qui per curarmi, dottore. Io sono qui per parlarle del coro». Coro, appuntò sul suo taccuino. Cosa intendevo esattamente? «Le voci, la piazza!» Come dir meglio? «La gente! Io sono qui per suggerirle una svolta, un’idea per i suoi studi. Potremmo chiamarla… psicologia della massa!»

Certo, la prego, fumi pure. Accenda il suo sigaro e contempli questo bel corso di Vienna, così come faccio anch’io ogni giorno. Lo vede, il secolo, dottore? La vede la massa che ci ha invaso, con la sua furia, i ritmi ciechi? Pulsioni, emozioni collettive. Era di questo che parlavo. Perché il coro era pazzo. Ora sarà disposto a ammetterlo: il coro… era da internare.

Un’emergenza sanitaria mi aveva fatto capire moltissimo. Nella mia città era scoppiata un’epidemia, lieve ma duratura. «E il coro, – le dissi – sta cercando i colpevoli. Capisce? Il coro è convinto che esista qualcuno di responsabile per…» Lei non si scompose. Si limitò a commentare: «Curioso». Che cosa? «Edipo, lei si è definito responsabile appena pochi istanti fa». «Ho detto… un politico responsabile…». «Esatto». Sorrisi: «Scherza. Ma forse non mi spiego. Hanno iniziato a concentrarsi sulle minoranze. Credono che l’epidemia sia colpa precisa di qualcuno. E i capipopolo li aizzano: oracoli, indovini, mille veggenti improvvisati che spingono a cercare il colpevole. E in questa follia, io non riesco a non trovare… ecco, un principio affascinante. Mi sembra di capire qualcosa. Che l’uomo è collettivamente pazzo. Che l’uomo nel suo complesso, nella sua umanità, nel suo essere popolo, o gente, o coro, o branco, è un malato da studiare».

Stupido io che ci provai. Ricordo, rispose che la società rappresentava il buonsenso, la misura, e che non capiva il mio atteggiamento antisociale. «Nasconde qualcosa, nel passato? Qualche delitto? Qualche crimine?» Io m’indignai sinceramente. «Ma glielo chiedo a fini scientifici. Sono convinto, se permette, che lei si senta in colpa per qualcosa. Qualcosa che forse non ricorda, ma che in effetti, sì, la rende responsabile dei mali della sua città». Provai a ribattere, provai a spiegarle la mia teoria daccapo. Lei però, ormai, era incrollabile: «Signor Edipo, è evidente che lei si sente diverso, non è così? E dunque la domanda è: che cosa ha fatto per meritare l’esclusione dalla società civile? Che cosa ha fatto per meritare le accuse del coro?»

Oggi, a distanza di trent’anni, le chiedo scusa per essere uscito in quel modo dal suo studio. Ma le parlavo di un delitto, e lei diceva che il colpevole ero io. Parlavo di masse inferocite, e lei indagava nel privato. Non capiva che l’uomo non contava più? Che le nostre dannate e poverissime vite personali non valevano un fico, davanti a un coro che parlava ad una sola voce, e che parlava di processi, responsabilità e linciaggi? Beva, su beva la sua cioccolata, e fumi. Non accetterò scuse, non la farò alzare dal tavolo prima di averle rivelato l’ultimo, autentico colpo di scena di questo romanzo poliziesco che un tempo, lontano, m’ha visto persino protagonista. Ovverosia: il colpevole è lei. Lei, dottore. E lo sa bene.

Mi stupii, certo, lo confesso, quando andai a leggermi i suoi saggi. “Complesso d’Edipo”. Che bella trovata! Un atto d’accusa contro la mia vita privata, pieno di fantasie e illazioni. Tra i tanti problemi che mi poteva attribuire, l’odio per mio padre era di certo il più ridicolo. E poi cos’altro? Pulsioni omicide, senso d’inferiorità… bene. Aveva scritto menzogne; si era attaccato alle mie parole per costruire trame assurde, inverosimili. Trame di cui, naturalmente, il coro si nutrì vorace, come se il suo fosse un vangelo. Ma non fu solo questo: il suo, dottore, era un atto d’accusa. Verso di me, povero uomo vecchio stampo. Verso di me, che mi credevo un eroe greco, borghese, singolo, capace da solo di fabbricarsi il destino. Non era così, mi diceva, dottore: perché nasciamo già segnati, perché l’uomo è cieco, e incapace persino di vedere le sue colpe. Il coro sì che aveva ragione. La società, così diceva, a cui noi tutti dovremmo adeguarci.

Dottore, non s’agiti: hanno vinto. Guardi lì su, su quel palazzo, la nuova bandiera che ci unisce: simboleggia il sole. Dottore, non cerco vendette. Forse davvero è tutta colpa di chi si ostina a non volersi adeguare, e il pazzo è sempre chi è convinto che siano pazzi tutti gli altri. La colpa è mia, facciamo così: la colpa è solo dell’eroe. M’hanno bandito dalla città, ma non ne facevo già più parte. È scoppiata una guerra, che lei ha appoggiato, e abbiamo perso. Il coro ne è uscito rafforzato. Giocasta? Non riesce nemmeno a mancarmi. E, quanto a me, mi sono adattato. Faccio la parte dell’escluso, e siedo qui, solo, a rimirare.

Perdonerà questo mio sfogo. D’altronde siamo dalla stessa parte. Quando ha intenzione di emigrare? Anche lei, oggi, è in fuga, esule, dal coro. Io no: non parto. Resterò qui, seduto al caffé. Guarderò il corso ancora per anni. E penserò che la salute sta sempre con la maggioranza. Il coro è la norma, il coro è il giusto. Siamo noi uomini il problema. Così starò zitto, fumerò. Attenderò gli anni che ci vogliono, senza cercare di cambiare il destino. Ma, ora che sono sullo sfondo, voglio godermi la tragedia.

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Errico buonannoErrico Buonanno è nato a Roma nel 1979. Ha pubblicato, tra gli altri, Piccola serenata notturna (Marsilio 2003, Premio Calvino), Sarà vero (Einaudi 2009), L’eternità stanca (Laterza 2012) e Lotta di classe al terzo piano (Rizzoli 2014). Giornalista e autore radiofonico e televisivo, collabora con Radiodue e con le pagine culturali del Corriere della Sera. Per Corriere TV ha realizzato nel 2014 la web serie “I ragazzi degli anni ’90”.

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