Andrea Porcheddu
Ancora sui riconoscimenti

Diario di un giurato

Un giurato (molto atipico) di premi teatrali racconta la sua esperienza, in risposta alla polemica innescata da Succedeoggi contro Le Maschere, gli Ubu e gli altri

Ci sono più premi che premiati, in Italia. Tanto più in questi anni bui, in cui il teatro è tutto un fiorire di concorsi e bandi, di talent e selezioni (naturali o meno). I premi, si sa, anche i più noti, scontentano tutti, anche chi vince – perché poi si dice, ovvio, che non se lo meritava. In un Paese basato sull’invidia e la competizione, il criterio del Premio, della benedizione che cala dall’alto, della prebenda, della mancetta è quanto mai coerente: in mancanza di un sistema strutturato, è solo nell’eccezionalità del premi (con la sua discrezionalità) che si può ottenere l’agognato riconoscimento.

(Devo ammettere, però, che io non ho mai vinto un premio in vita mia, ma mi piacerebbe assai).

Insomma, magari un pluriennale lavoro sul territorio non verrà mai riconosciuto, però se arriva il “premio” è fatta: si è nell’albo degli eletti. Il guaio è, almeno da noi, che i premi sono pensati – più o meno – su misura dei premianti e dei premiati. Lo scrive bene e schiettamente Nicola Fano su queste pagine (clicca qui per leggere l’articolo) . Che facciamo, allora? Smettiamo di auto-premiarci? Di fatto, in tutti i premi è il sistema che riconosce se stesso: si autocertifica, si auto-gratifica. Ogni premio ha una sua tendenza e ogni tendenza ha un suo premio, almeno da noi.

franco quadriGirava una storiella, anni fa, a proposito del prestigioso Premio Ubu: «Tu fai le tue candidature, voti ai ballottaggi, e poi decide Franco Quadri» (nella foto). L’Ubu, nel bene e nel male, ha segnato mondi, ha decretato successi (e insuccessi), ha imposto artisti – anche per ragioni non propriamente artistiche. Però l’Ubu è una storia importante, è un riferimento ancora oggi, nel momento in cui – dopo la scomparsa del suo fondatore – sta cercando un nuovo assetto.

Tutti cercano, comunque, di intercettare la (propria) realtà, additando gli altri premi di incapacità congenita di farlo. C’è Hystrio, c’è il premio dell’Associazione nazionale Critici, ci sono premi persino all’Inda di Siracusa e ora ne nasce un altro alla Pergola di Firenze. Con amici e colleghi della critica on line abbiamo fondato un (ennesimo) premio: Rete Critica, una identità in divenire, che sta segnalando “nuove” tendenze, normalmente escluse dal grande circuito dei premi maggiori. Poi c’è le Maschere del teatro. Ovvero l’istituzione più istituzionale.

Per la prima volta, quest’anno, ho accettato l’invito del segretario generale, il critico Maurizio Giammusso, di entrare nella giuria.

Sapevo ovviamente tutto del premio: che è un riconoscimento al teatro “mainstream”, che è fortemente sbilanciato sui suoi promotori – ovvero l’area napoletana – dal momento che buona parte della giuria è composta da professionisti che vivono e lavorano a Napoli. In giuria ci sono nomi autorevoli – da Masolino D’Amico a Giulio Baffi – la cui competenza e serietà è indiscutibile. Certo, i nostri gusti non collimano, il teatro che io amo e difendo è sicuramente diverso da quello sostenuto, che so, da una giornalista come Emilia Costantini del Corriere della Sera che ha la sua visione e le sue preferenze o da una autrice come Maricla Boggio.

Ho ritenuto, però, più che opportuno partecipare alla prima fase di votazione: ho portato le mie candidature – che in questo caso guardavano soprattutto al teatro “ufficiale”, visto il contesto – fatte senza alcuna pressione. E ho partecipato alla curiosa e divertente “discussione aperta”, di fronte a un pubblico (a dire il vero non numerosissimo) del teatro Eliseo. Insomma, non so: per quel che mi riguarda, penso che sia importante portare la nostra prospettiva, il “nostro” teatro anche in contesti altri, più distanti e forse più difficili. Ben sapendo che sono battaglie di minoranza, destinate alla sconfitta. Credo sia opportuno ostinarsi a piantare i chiodi con la fronte, anche in terreni argillosi, o friabili, o di gomma.

Romeo CastellucciI miei voti sono stati sicuramente “a perdere” – sono stato l’unico a votare Castellucci (nella foto), Arcuri, Latella, Scott Gibbons, la giovane compagnia “La Fabbrica” di Fabiana Iacozzilli, o altri. Però ho incontrato anche inattesi compagni di strada (dai citati Baffi e d’Amico a Marco Bernardi o altri) e abbiamo incrociato i nostri voti per sostenere un teatro che riteniamo di qualità, ancorché non “di tendenza” o “di ricerca”. Così, tra i finalisti, ci sono anche la straordinaria Elisabetta Pozzi, o il fantastico Lino Musella o ancora Tonino Taiuti o la sempre brava Anita Bartolucci. Certo, poi c’è anche Alessandro Preziosi che vince su Ascanio Celestini, oppure Leandro Amato che la spunta su Paolo Pierobon o Renato Carpentieri (per citare quelli che avevo votato).

Battaglie di minoranza, dunque, battaglie di retroguardia, le nostre. Ma combattendo serenamente, abbiamo rischiato di portare un lavoro come Pantani, scritto e diretto da Marco Martinelli, alla fase finale. E abbiamo dato un contributo per candidare alla finale l’ottimo Massimiliano Gallo anziché altri, sicuramente di livello più basso. Abbiamo costretto il presidente di Giuria, l’onorevole Gianni Letta, a parlare di uno spettacolo come La merda di Christian Ceresoli e Silvia Gallerano (nella foto accanto al titolo).

Piccole soddisfazioni, mi direte: è vero, e forse non bastano. Però che fare? Dovremmo rinunciare?

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