Al museo Casamadre
Clemente a Napoli
Il grande artista torna nella sua città a mostrare i segni dell'infanzia ripensata e rimodulata negli anni della maturità: un ritratto tra poetico e filosofico
L’eterno ritorno. Francesco Clemente, l’artista che, appena ventenne, intraprese le sue personali “vie della seta” da Napoli all’India alla ricerca dell’altrove, ancora una volta si arrende al richiamo della sua città. Una memoria e una identità sempre presenti anche se, da tempo, si è “accampato” tra Manhattan e Benares, naufrago alla deriva tra Occidente e Oriente, che si nutre di pittura «perché solo la pittura guarisce lo spirito». Eccolo, dunque, rimodulare la sua rotta “ab ovo” – “dalle origini” come ha titolato, era il 2004, le «stanze dell’infanzia» al Madre con i suggestivi affreschi icona e l’elegante pavimento di ceramica – per un doppio bagno nelle acque del tempo interiore.
Già, l’installazione creata per Casamadre – a distanza di 35 anni dal debutto, nel 1979, nella galleria di piazza dei Martiri – è un tributo a Lucio Amelio «senza il quale non sarei quello che sono» e all’amico Eduardo Cicelyn, erede spirituale della creatività ameliana e suo degno successore nella galleria-fabbrica delle arti di palazzo Partanna. Qui – le ammireremo fino al 28 settembre – Clemente ha portato le sue grandi “bandiere”, dipinte e ricamate in India con l’aiuto di artigiani del luogo, sorta di postfazione alla recente pubblicazione, Made in India (Charta) in cui, tra testi e immagini, ha raccolto «la libera e cosmica spiritualità delle filosofie orientali». Nello studio dell’intellettuale-mecenate-manager ha esposto, invece, un ciclo di piccoli, delicati acquerelli ispirati a Le ore estive di Federico Garcia Lorca e il lavoro autobiografico Tribal self-portrait.
L’impianto visivo-emozionale è di enorme impatto. Nell’ambiente principale di Casamadre, ridisegnato con due pareti a cromie contrastanti di rosa e rosso scarlatto a mo’ di quinta dell’intimo monologo dell’artista in bilico tra realtà e artificio, sono sospesi, su aste di bambù, tredici vessilli, nove issati a sorta di percorso araldico e quattro con entrambi i lati offerti in uno sdoppiamento complementare: se si scosta il velo orientale e misticheggiante che cattura al primo sguardo, si coglie, nel trionfo di segni e simboli e nell’ambiguità di aforismi ricamati in oro sull’intreccio di tessuti diversi cuciti insieme, da una parte, «il ricordo, come dice l’autore, di tutte le rivoluzioni e delle ideologie appena tramontate», dall’altra il richiamo al profetico saggio La società dello spettacolo di Guy Debord. La leggerezza dell’opera si fa dunque, come sempre in Clemente, strumento di riflessione. «La sua pittura – spiega Cicelyn – è iscrizione del mondo. Non una presa, non una partecipazione, ma un taglio veloce sulla superficie, come un’increspatura che si tocca con mano ma che si vede solo da lontano. L’artista è lo spettatore (qui magari lo sbandieratore) di un evento, festa o catastrofe che sia, che percepiamo solo quando è allegoria, cioè quando l’immaginazione aderisce perfettamente perché si separa dalla realtà e la prende alle spalle, riscrivendola sotto forma di immagini da leggere e interpretare con cura e sapienza infinite».
Il mondo intero è lo spettacolo della separazione; Clemente, figura tipicamente postmoderna, declina i temi a lui cari di Blumenberg e Debord con una sorta di concettualismo malinconico e cerca di trovare nell’arte l’antidoto alle separazioni. In fondo quest’opera site specific per Casamadre, non è altro che la continuità di un discorso intrapreso con Cicelyn, all’epoca in cui era direttore del Madre, già con la mostra antologica Naufragio con spettatore allestita nel museo di via Settembrini nel 2009. E, restando a Napoli, ne troviamo le tracce anche nella metropolitana, uscita Montecalvario, abbellita dallo spettacolare mosaico di pietra e ceramica Engiadina. la valle del Canton Ticino di Nietzsche dove la luce mediterranea si arresta – in cui convivono paesaggi alpini con sensuali danzatrici indiane. Il pensiero dominante è ossessivamente lo stesso, tracciato fin dai tempi della “militanza” nella Transavanguardia, solo più maturo e solitario: la riconciliazione tra l’eredità greco-romana e la percezione contemporanea di un mondo imperfetto, l’armonia contro il caos che ha come bussola l’India «luogo dove nulla è negato», grazie alla sua cultura contemplativa che vive di immagini e alla «capacità di accettare ogni esperienza umana, anche la più folle». Quel che varia è la sperimentazione tecnica e stilistica che va dall’olio all’acquarello, dall’affresco al mosaico, dalla ceramica (è stato coniato il termine “giallo Clemente”) al tessuto. «C’è sempre un filo che lega tutto», avverte l’artista-filosofo. E quel filo lo riporta, lui nomade per scelta, sempre e comunque a Napoli, casa-madre.
Le foto della mostra sono di Angelo Marra