Laura Novelli
Al teatrino Eleonora Duse di Roma

Nella caverna di Faust

Gli allievi dell'Accademia Silvio D'Amico si sono diplomati con un bellissimo spettacolo-maratona (diretto da Latella) che mescola riferimenti alti e bassi, i classici del teatro e l'immaginario televisivo

Sono convinta che una delle forme più feconde attraverso cui il teatro contemporaneo possa e debba continuare a disegnare traiettorie di ricerca sia la Pedagogia. Quando un regista si pone a servizio dei giovani e mette loro a disposizione la sua sapienza, il suo immaginario, il suo “artigianato”, la sua capacità di reinvenzione scenica fa un regalo incommensurabile a loro e a se stesso. Ne ho avuta ampia riprova domenica 6 luglio mentre assistevo, al teatrino Eleonora Duse di via Vittoria, allo spettacolo di fine corso degli allievi attori che quest’anno si sono diplomati all’Accademia Silvio D’Amico di Roma: sette intense ore di spettacolo (interrotte da due brevi intervalli), venti bravi interpreti chiamati, ognuno, ad una prova di faticoso ma superbo eclettismo (evviva!), la visione d’insieme di un artista prolifico ed internazionale come Antonio Latella e un mito monster come quello di Faust, qui mozzicato dalla grinta drammaturgica dello stesso Latella, di Federico Bellini e di Linda Dalisi  per tradursi in un fantasmagorico cabaret dell’esistenza umana, del confine tra Bene e Male e, in ultima analisi, del Teatro stesso.

faust latella1Sarebbe riduttivo definire “saggio” questo lavoro così avvolgente, così ricco, così visionario che, intitolato Faust Diesis e diviso in due parti (rispettivamente “Metronomo” e “Diapason”), eleva la musica a territorio sconfinato di passione, tormento, indagine, riservandole un ruolo di primo piano non solo nella personificazione incarnata da un’attrice/Parca che suona il violoncello ma anche nella presenza in scena di strumenti vivi e di custodie di orchestrali e – soprattutto – nei continui intarsi vocali, balletti, sinfonie di suoni concepiti ed eseguiti dal vivo da Franco Visioli con magistrale e corale precisione. Questi indomiti neo-attori, che sul palcoscenico diventeranno presto sguaiati, volgari, spudorati, sofferenti, disfatti, appassionati, denudati, scandalosi, blasfemi, clownistici, grotteschi, ci accolgono compiti e sorridenti seduti in proscenio: parlano di teatro, ironizzano sul loro incerto futuro, prendono in giro il radicalismo chic degli intellettuali italiani, sottolineano i vuoti della politica. Con estremo realismo essi fanno dunque i conti con la propria vocazione, introducendo quella cornice metateatrale che, un po’ boccaccescamente, serve loro per dedicarsi poi con energia e sudore e fatica alla poesia (anch’essa estrema ma per fortuna assai meno realistica) di un luogo in cui ogni volta e per forza si ricapitola la storia dell’Uomo. E non si tratta tanto di dissacrare il teatro quanto piuttosto di osservarlo nella sua caverna paurosa ma necessaria, vitale.

D’altronde, è proprio in questa sorta di corto circuito tra abbassamento critico alla realtà, alla crisi attuale della cultura ed elevazione sublime all’arte più vera che si muove tutto il fiume in piena di parole, immagini riferimenti letterari, pittorici, musicali disseminati in questa maratona dentro la civiltà europea degli ultimi secoli. Goethe e Thomas Mann (autore del romanzo Doctor Faustus che ha per protagonista il musicista Adrian Leverkühn) come pilastri di partenza. Ma poi ovviamente la rosa dei richiami letterari si amplia con, ad esempio, Bulgakov, Shakespeare, Marlowe, Dante, Müller (risuonano interi brani del sempre sorprendente Hamletmachine), Melville, La Sirenetta, Pinocchio, e tanto immaginario televisivo odierno. Siamo in una discoteca, in un locale di perdizione, in un infermo di perversità e giochi semiseri dove un Faust/Adrian sofferente e straniato (tanto che l’attore, Paolo Minnielli, recita quasi sempre rivolto verso il pubblico) fa fatica a staccarsi dalla sua pianola giocattolo e un Mefistofele in abito rosso corallo e occhiali da sole (Gabriele Abis) lo perseguita con la stessa volgarità di un presentatore tv senza scrupoli. Intorno a loro, una galleria di figure più o meno simboliche: una donna incinta, Elena di Troia, la puttana del locale, un tronista tutto muscoli, una ballerina classica stralunata che incarna i sette peccati capitali. Il corpo è in primo piano: un corpo esibito, sensuale, sfrontato, erotico transgender, disinibito, ma anche fragile, giovane, esposto al rischio del peccato, della scelta, del disequilibrio. Come in un cabaret espressionista ci sono continue dilatazioni; la drammaturgia divaga, allarga gli spunti, crea connessioni e rotture inconsuete. Sembra un vero e proprio montaggio delle attrazioni degno del grande Ejzenštejn, all’interno del quale però non si perde mai di vista il filo centrale della narrazione, fino all’epilogo delle prime quattro ore, allorquando cioè la parabola dell’amore del protagonista per la dolce ed ingenua Margherita (Eleonora Pace) rovescia lo sberleffo in tragedia. Il dramma è consumato: Faust è finito, chiude il piano, strappa gli spartiti. Il suo mito è un fallimento.

Ma forse no. È un mito di ricerca, di morte e rinascita, di trasformazione, di conflitto con se stesso, con il mondo e con Dio. È una sfida. Questo stesso lavoro è un lavoro sulla sfida. Il teatro e la letteratura come sfida. La letteratura come sfida. La vita umana come sfida. E ci vuole la calma della seconda parte, un’atmosfera più compassata, più semplice per chiudere il cerchio. Non siamo che ombre si ripete più volte. O burattini che si decompongono come una macchina attorale di Carmelo Bene, un’armatura senza energia. Il viaggio di Faust somiglia in fondo a quello della Sirenetta, metà donna e metà pesce: anche lei scambia qualcosa di sé per qualcos’altro. Ma sbaglia. Perde la voce. La musica. E tuttavia la sfida più ardua sta proprio nel continuare a cantare con tutte le forze; nel combattere ancora e ancora quella balena bianca vestita da sposa che arriva dal fondo nel buio della notte.

antonio-latellaInsomma, non chiamiamolo saggio, per carità, questo spettacolo che – prodotto dall’Accademia e dalla compagnia Stabilemobile di Latella – meriterebbe di girare per la Penisola (non senza qualche taglio che forse gioverebbe all’insieme) e di essere visto da tanti spettatori. Dicevo all’inizio che esperienze di questo tipo mettono in circolo energie che sono un regalo tanto per i giovani quanto per i maestri. Credo che Latella abbia regalato tanto, davvero tanto, ai suoi debuttanti attori. Ma credo che abbia regalato tanto anche a se stesso: sia un felice ritorno a certe visioni messe a segno in spettacoli del passato (penso soprattutto a Querelle, Macbeth, Amleto, Moby Dick, Un tram chiamato desiderio) sia un’ulteriore consapevolezza rispetto a certe questioni “filosofiche” su cui sta lavorando ultimamente. In particolare, alludo proprio al tema del Male, che sarà al centro del suo prossimo allestimento, “Die Wohlgesinnten” di Jonathan Littell, atteso a Vienna il 4 e 5 ottobre prossimi e poi all’Eliseo nell’ambito del Romaeuropa Festival. E, per amor di completezza, ricordo volentieri che il regista campano sarà impegnato anche alla Biennale di Venezia in un interessante workshop sull’arte del duello (esito pubblico il 10 agosto) e a dicembre tornerà a Roma con la regia di Natale in casa Cupiello di Eduardo (Teatro Argentina).

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