Un libro di Giuseppe Ottomano e Igor Timohin
Il volo nel buio
Un bel libro ripropone la terribile parabola di Vladimir Jascenko, ragazzo sognatore, grande campione di salto in alto e infine "ucciso" dal regime sovietico in quanto «borghese individualista»
Per certi versi sono stati molto simili nella loro breve vita Vladimir Vysockij e Vladimir Jascenko. Il primo attore del teatro Taganka e di Jurij Ljubimov, cantautore ripreso da Branduardi, Finardi, Guccini che lo illustrarono in un Premio Tenco del ’93, compagno di Marina Vlady e noto ubriacone; il secondo, atleta, primatista del mondo di salto in alto a 19 anni, un ribelle alla James Dean e noto ubriacone anche lui. Tutti e due anticonformisti, non allineati, tutti e due vittime di un regime senza cuore, freddo e burocrate, stupido e malvagio, che pure non hanno mai combattuto. Non sono stati due martiri del comunismo sovietico – prendo in prestito una frase di Massimo Boffa in un ritratto di Vysockij che scrisse qualche anno fa per Il Foglio all’uscita di un libro a lui dedicato – non furono perseguitati. Furono invece disprezzati e sopportati a stento dal sistema. E se Vladimir Putin ha avuto modo in qualche occasione di ricordare l’artista popolare negli anni Sessanta e Settanta nella Russia sovietica, dell’altro, di Jascenko, si fa fatica a richiamarne la memoria.
Bene ha fatto dunque Giuseppe Ottomano, aiutato da Igor Timohin, che di “Jasca” fu amico e autore di un romanzo Divisione altezza a lui dedicato, a scrivere questo Il volo di Volodja. Vladimir Jascenko, campione fragile (miraggi edizioni,euro 15), in uscita per fine mese, un libro che gode dalla prefazione di Franco Bragagna, giornalista e cronista di atletica leggera per la Rai, e di un ricordo di Carlo Vittori, il “professore” di Pietro Mennea. Il volo… come il titolo di un brano di Visockij ma anche il titolo della raccolta del Club Tenco, Il volo di Volodja, appunto. I due Vladimir, vite parallele e autodistruttive, diverse e tragiche fino alla consumazione della poesia di un verso o di un gesto.
«Il suo stile sembrava un abbozzo di ventrale dettato più dall’istinto che dalla coscienza, ma levandosi da terra liberò una leggerezza innata, come se si fosse lasciato sorreggere dalla forza dell’aria»: era la primavera del ’70, aveva soltanto 11 anni questo lungagnone magro magro che pareva destinato al mezzofondo breve e che invece qualcuno nota e gli chiede di provare a superare l’asticella posta sui ritti. Non lo aveva mai fatto, scavalca 1,35 metri, non c’è stile, non c’è garbo, c’è soltanto quella leggerezza di sollevarsi in aria.
Ragazzo particolare, Vladimir, subito vezzeggiato come Volodja, ucraino del sud e mezzo cosacco, di Zaporozhye: spesso marina la scuola e se ne va a guardare il lavoro alla cava di granito, vicino alle sponde del Dnepr, sul ciglio del burrone dove due esplosioni quotidiane di dinamite scuotono l’aria e la terra. Oppure corre per i boschi fino a cacciarsi nei guai per rovinose cadute e misteriose sparizioni. O, ancora, si rifugia su un’isola vicina per stare lontano da tutti. Ma soprattutto ama sdraiarsi, adolescente, sul divano e divorare i libri di Aleksandr Grin, il mondo fantastico che esce da quelle favole. Nei giorni bui dell’alcol e dell’abbandono continuerà a ripetere: «Mi piace stare da solo possibilmente immerso nella natura». Anche quando diventa un fenomeno dell’atletica leggera, lui continua a tenere un diario, che è un po’, scrivono gli autori, la sua coperta di Linus: annota tutto, misure e sentimenti, passi per il salto e gli alti e bassi dell’anima. Un giorno, mentre era in ritiro da qualche parte, quel diario sparisce, forse glielo rubano. È una mazzata per i suoi fragili equilibri esistenziali.
Quando debutta nel ’76 a Leopoli alle Spartachiadi, supera 2,21 metri migliorando il record mondiale junior di un’icona dello sport sovietico, Valerij Brumel. Lo portano in ritiro con la nazionale nel Caucaso ma lui la mattina vuole dormire. Vorrebbe studiare legge ma lo costringono a seguire scienze motorie. Viene etichettato come un «borghese individualista». Anche il suo mentore e allenatore, Vasilij Telegin, cerca di convincerlo a cambiare. Lui gli promette che si impegnerà ma forse vuole dirgli altro. Ad esempio «… che in quel momento il suo primo desiderio fosse di riappropriarsi dei suoi diciassette anni. Non poteva confessargli questo, come non poteva confessargli che aveva voglia di andare al cinema, passeggiare nei boschi, ridere con gli amici… ascoltare le canzoni dei Beatles…».
Volodja saltava alla vecchia maniera, quello stile ventrale che alla fine degli anni Sessanta era stato soppiantato da Dick Fosbury e dal suo “salto del gambero”. I sovietici andavano per la loro strada e non potevano certo darla vinta agli americani. Ma il 3 luglio del ’77 a Richmond, Virginia, quello strano russo capellone, con una scarpetta di un colore e l’altra di un altro, la striminzita canottiera rossa con la scritta CCCP, si issò prima a 2,28 metri (mondiale junior), poi a 2,31 (record europeo), infine disse ai giudizi di portare l’asticella a 2,33. Dwight Stones non c’era a Richmond quel giorno. Lui un anno prima aveva fatto registrare il salto più in alto di tutti: 2,32. Volodja, scrivono Ottomano e Timohin, «si inerpicò con l’elasticità di un gatto e scavalcò nettamente l’asticella, senza sfiorarla nemmeno». Pare che Stones reagisse così: «Venite a dirmi che un certo Jascenko mi ha soffiato il record del mondo? No, non credo proprio che me l’abbia soffiato: lo ha solamente preso in prestito». Mentiva. Lo stesso recordman statunitense molti anni dopo confessò in una intervista: «Per me fu quasi un shock».
Volodja divenne famoso in un attimo, lo cercavano in tutti i meeting ma i funzionari di partito e il Kgb erano preoccupatissimi perché quel ragazzo dava di matto e si intratteneva con i giovani occidentali. Negli alberghi saltava sotto il soffitto per far capire fin dove poteva arrivare, lasciando l’orma della sua scarpa, disertava gli allenamenti rifugiandosi nei boschi dell’isola di Chorticja, si atteggiava a divo del rock mettendosi a suonare la batteria. I burocrati lo sorvegliavano. Non volevano che uscisse dall’Urss, troppi contatti con il mondo occidentale. Ma al Palazzo dello sport di Milano nel marzo del ’78 va in onda un’altra spettacolare sequenza: arriva fino a 2,35, nuovo limite sul tetto del mondo. Come se avesse saltato un elefante, titola La Gazzetta dello Sport. Il ginocchio sinistro però comincia già a fargli male. Da quel successo in Italia comincia la caduta rovinosa e repentina di Volodja. La noia che lo prende, il ricatto dell’”apparato”: non è vero che stai male, devi gareggiare, ci sono i Giochi a Mosca. Trascinato con l’inganno in un meeting a Kaunas (Lituania), si romperà. Non farà l’Olimpiade. Verrà maldestramente operato per una lesione al menisco due volte: alla fine non riesce quasi a camminare. Ci vorrà l’intervento di una ex atleta austriaca a costringere le autorità russe a farlo vedere e ad operare in Austria: era l’81, lui aveva 22 anni. Ma era finito. Il regime cominciava a dissolversi con la morte di Breznev e la lenta trasformazione liberale di Gorbaciov, fino al crollo del ’91.
Lui si lasciò andare a poco a poco, ogni tanto cercava di lavorare come istruttore di educazione fisica come muratore ma non resisteva, scompariva per lungo tempo, non sopportava il fatto che la gente lo avesse dimenticato. Viveva come un eremita nella propria abitazione, poi in un sottoscala. Trascorse anche dieci giorni in un ospedale psichiatrico dopo un ricovero coatto: i medici non redassero nemmeno un referto. Non era pazzo, Volodja. Era ammalato della vita, non aveva retto il successo come a tanti altri è accaduto. La vodka e l’indifferenza della gente fecero il resto. Morì di un tumore al fegato nel novembre del ’99, aveva poco più di quarant’anni. Ed è stato uno dei migliori e più fragili talenti dello sport.