Lettera da Hebron
La vita apparente
Un giorno nella zona dove il conflitto tra israeliani e palestinesi è più duro. Un luogo dove il sogno più ardito è fare una vita normale. Senza dover soccombere nella “guerra della burocrazia”
Hebron. Isra si sveglia ogni mattina con l’ansia che un nuovo ordine di demolizione faccia scomparire per sempre la sua casa nel villaggio di Ibzet-Tabib. Gli piace disegnare il volto di Marilin Monroe, ha 16 anni e una gran voglia di avere una vita normale. Avighai beve il caffè e sgranocchia un halva, mentre sfoglia lento le pagine di un quotidiano. Pensa a quanti insulti riceverà oggi. A quanti connazionali lo guarderanno con occhi severi, senza commentare. Lui e un ex sergente di una unità di Tsahal, l’esercito con la stella di David. Nel 2003 con la sua pattuglia si muoveva da un checkpoint all’altro a Hebron nel West Bank. Era lì per proteggere. Ma aveva capito in fretta che proteggeva la parte “sbagliata”.
Mohannad alle otto è già in giro per Hebron. La sua casa, quella della sua famiglia, è vicino alla scuola Cordoba, alla scala della “vergogna”. Nel giardino da dove si gode una delle viste più suggestive di Hebron. Ha una piccola videocamera, documenta ogni comportamento illegale dei coloni israeliani e dei militari dell’Idf. Non è un lavoro facile. Le intimidazionii sono continue, le umiliazioni anche. Per le famiglie di Eyal, Gilad e Naftali i tre ragazzi scomparsi giovedi scorso, proprio nella zona di Hebron, ogni mattina è un tormento. Ogni minuto senza notizie è una tortura. Ogni speranza accesa e poi spenta è come morire.
Moran dorme. Vive a Tel Aviv, dove lavora, ma di sera ama tirar tardi per locali e la città offre tanto alla movida. Da un po’ di tempo dorme male e sogna peggio. Un incubo ricorrente: svegliarsi sdraiata su di una panchina ma lontano dal suo paese. Non si dà pace, teme davvero che possa succedergli. È preoccupata per cio’ che potrebbe accadere a nord. Ricorda ancora il periodo dei razzi dal sud del Libano. Un incubo quotidiano. Pensa che anche nel West Bank le cose potrebbero peggiorare. «Lì stiamo esagerando, ma nessuno ragiona più, passata la linea verde».
Girando per il West Bank ti accorgi subito che lo Stato palestinese è una pia illusione. Un simbolo da sbandierare sopra il tavolo delle trattative, mentre sotto viene portato a compimento ciò che Ariel Sharon aveva anticipato già negli anni Settanta: «Renderemo impraticabile ogni possibilità di costruzione di uno Stato palestinese».
Abu Ghassan, ormai non dorme più, anche perché non saprebbe più dove sdraiarsi, se non per terra. È un beduino. Il suo campo a ridosso di un’area destinata a nuovi insediamenti, poco fuori Gerusalemme Est, è al centro di una disputa politica. Nella Città santa tutto è politica, tutto ha un valore “strategico”. Ogni singolo permesso, ogni pezzo di carta bollata, ogni firma o vidimazione è fatta, pensata e realizzata per sfiancare la volontà dei palestinesi di continuare a vivere nella parte orientale della città o a ridosso di qualsiasi colonia nel West Bank. Ghassan è cieco e ha dieci figli. Sulla collina fresca e ventilata che domina la cosiddetta zona E1 puoi vedere sulla sinistra l’insediamento di Maale Adumim che si allunga a nordest come la falange di un dito. L’amministrazione cittadina ha deciso che questa tribu di beduini debba sloggiare. Gli israeliani hanno messo sul piatto i soldi e le lusinghe di una casa nuova. Loro sanno che accettando lasciarebbero campo libero alla costruzione di una vera cintura di insediamenti intorno a East Jerusalem. Allora sarebbe solo questione di tempo per gli arabi che ancora resistono nei quartieri, con servizi scadenti, limitazioni e angherie se hanno la sfortuna di vivere a contatto con dei coloni (i settlers). I beduini sono tra due fuochi, ma «questa è la vita che ci siamo scelti da 50 anni, finché potremo resisteremo qui» ci spiega Ghassan, con le parole di Shadi, responsabile comunicazione della sede Ue per Gaza e West Bank, che traduce in simultanea. Abu Ghassan aveva provato a mettere insieme quattro mattoni scalcinati per costruire qualcosa che fosse un piccolo passo avanti rispetto alle baracche arruginite dove vivevano. Uno zelante geometra del comune l’ha fatta spianare. Sono arrivati i soldati. Ma non è tutto, alla beffa si è unita l’umiliazione, perché con i militari c’erano i settller a picconare mura e finestre. Non è bastato. L’Unrwa (l’organizzazione Onu che si occupa dei rifugiati) ha donato un caravan al beduino cieco. Confiscato anche quello. Poi la Croce rossa ha fornito una tenda, per motivi umanitari. Ma a quanto pare si sono accaniti anche contro quest’ultimo rifugio d’emergenza. Vi lascio solo immaginare quali sentimenti possano covare persone private di ogni diritto.
Nella citta vecchia hanno trovato un escamotage per resistere alla guerra burocratica, ci spiegano gli esperti di Undp, l’organizzazione Onu che si occupa di alcuni aspetti urbanistici della delicata situazione di Gerusalemme. Molti palestinesi hanno donato le loro abitazioni alla Aqwa, una fondazione religiosa giordana. In questo modo non rischiano sfratti o di perdere la residenza: una delle minacce peggiori, perché li bandirebbe definitivamente dalle loro case. È veramente sconsolante sentire l’elenco dei metodi con cui l’ammministrazione comunale esercita pressioni su residenti ed esercizi commerciali arabi, col chiaro intento di spingerli ad andarsene.
Moran questa mattina per andare in ufficio ha preso la vespa rossa, che tutti i colleghi le invidiano. È passata al bar dell’angolo sulla Nahalat Benyamin per fare colazione. Cappuccino italiano e via di corsa lungo le strade di una città unica che alterna Miami al Medioriente, Los Angeles a Tiro. Continua a pensare che quella vita scintillante che molti le invidiano, perché Tel Aviv è un gran bel posto dove vivere, sia pagata con cambiali firmate nel West Bank. Nonostante le apparenze da “localara” – direbbero a Roma – Moran sa che nella vita nessuno ti regala nulla. Niente arriva facile e i conti, presto o tardi, si pagano. Ha un animo sensibile e non riesce a togliersi dalla testa come, a pochi chilometri da quella vita da copertina, ci sia gente che vive alla giornata senza diritti, senza speranze. Basta passare il checkpoint di Qalandia e attraversi lo stargate tra civiltà e miseria.
Qalandia, dove passano solo le targhe gialle: quelle verdi possono circolare solo nel West Bank e non possono accedere sulle strade costruite per i coloni. Pena il sequestro del mezzo e multe infinite. Anche se quelle strade te le hanno costruite davanti la porta di casa e non sapresti che pesci pigliare per muoverti. È la vita nel WB. Qalandia, dove mi è capitato di guardare dal buco della serratura delle passioni dei palestinesi. Ho avuto la fortuna di comprendere in pochi minuti quanto fragile sia la tregua che si vive da quelle parti. Da Ramallah per arrivare a Gerusalemme avevo sperimentato, come al solito, i mezzi locali: un taxi collettivo che mi aveva lasciato di fronte al checkpoint. Litigata col driver per il pagamento, come al solito. E auguri che a un musulmano farebbero tremare i polsi. Mi ero cosi avviato verso il passaggio di confine a piedi. Zigzagando tra le auto, sovrappensiero. Col mio zainetto nero “siriano” sulle spalle. Sentivo un gracchiare di altoparlanti in una lingua indistinguibile. Non era arabo. Pensavo fossero ordini per le auto in fila nell’ingorgo. I clacson che suonavano ne erano la conferma. Poi sento delle voci di ragazzi in inglese: «They shoot… they shoot… they shoot» . Mi giro e vedo quattro ragazzi seduti fuori dai finestrini di un auto in coda che si sbracciano. Ce l’hanno con me! Rapida retromarcia, mani bene in vista. Era concitazione mista a eccitazione quella dei giovani palestinesi che tentavano di spiegarmi che è proibito il passagio pedonale da quel punto. E che i soldati dopo un paio di avvertimenti sparano. Ecco, in quel preciso istante ho visto nei loro occhi quel tipo di eccitazione, mista ad ammirazione per un’azione, del tutto inconsapevole nel mio caso, per una sfida lanciata ai militari israeliani. Avrebbero voluto farlo loro. Avrebbero voluto esserci loro al mio posto e probabilmente avrebbero continuato quella stupida corsa fino a farsi ammazzare. Ho riconosciuto quel sentimento al Cairo, come a Tunisi o in Siria. È la disperazione che in pochi secondi diventa riscatto. E devi essere musulmano per capirla a fondo. Israele ha tirato troppo la corda con i palestinesi.
Avighai è puntuale all’appuntamento col gruppo di giornalisti che dovrà accompagnare a Qyriat Arba e poi a Hebron. Due città, due mondi praticamente attaccati. Oggi i settler saranno meno “aggressivi” del solito, pensa. La prima tappa è qualcosa che provoca uno shok. È una specie di memoriale dedicato a Benjamin Goldstein (nella foto qui accanto) nel parco Meir Kahana di Qiryat Arba. C’è la sua tomba, nell’epitaffio viene definito un “martire”. È meta di pellegrinaggio degli ebrei ortodossi. Goldstein nel febbraio del 1994, nella ricorrenza del Purim, armato di un fucile d’assalto e numerosi carcatori fece una strage al Tempio dei Patriarchi, allora una moschea. Ventinove arabi uccisi e 125 feriti. Il governo d’Israele emanò una legge per limitare i movimenti delle frange piu radicali dell’ortodossia ebraica e smantellò il memoriale costruito intorno alla tomba di Goldstein. Ma ancora oggi tomba e lapide sono meta di visite. Ricordiamo che a Hebron nel 1929 (allora sotto mandato britannico) ci fu un’altra strage di 67 ebrei, questa volta. Tra gli assassini anche poliziotti arabi in borghese. Il grosso della comunità ebraica si salvò grazie ai vicini arabi che li ospitarono, nascondendoli alla follia omicida. E da non dimenticare neanche il cecchino palestinese che da Hebron centrò a Qiryat un bimbo in braccio alla madre. Questi fatti servono a spiegare molto schematicamente in quale tipo di palude di sentimenti, rancori, vendette, frustrazioni vivono gli abitanti di Hebron. Dal 1967 la parte debole, le vittime sono diventati i palestinesi. Nel 2008 l’unità di fanteria Golani arrivò a Hebron e sistemò il proprio QG a Tel Rumedia. Volle subito mettere in chiaro che le cose sarebbero cambiate. Si sapeva che la brigata Nahal aveva avuto la mano leggera con i palestinesi. Ogni tanto li lasciavano respirare. Gli uomini della Golani incominciarono a tracciare linee sul terreno, ai checkpoint, agli incroci, nelle strade. Gli arabi non dovevano mai superarle se non autorizzati da un militare delle Idf. E cominciarono gli arresti di giovani palestinesi. Bastava che si avvicinassero a un checkpoint non autorizzati, per fermarli. E arrestarli. Mentre Avighai snocciolava i racconti dei suoi commilitoni, ripensavo a cio che mi era successo a Qalandia. Alla voglia di sfida di chi sente l’oppressione insopportabile, la voglia di reagire incontenibile, il bisogno di gesti simbolici e folli incontrollabile. È la vita nel West Bank.
Oggi Isra ha avuto una buona notizia, hanno finalmente approvato il piano regolatore per il suo villaggio. Grazie anche all’ufficio Onu che si occupa del coordinamento di molte attività (Ocha). Mancano pochi passaggi burocratici, Inshallah. Forse Isra avrà sonni più tranquilli, una panchina nel boschetto di fronte, dove sedersi la sera a studiare l’inglese che già parla molto bene. Bevendo un bicchiere di sciroppo di carrubo.
Moran cercherà di continuare la sua vita di sempre, piena di dubbi, costellata di paure. Annegata nella movida, ma consapevole che le cose dovranno cambiare. Soprattutto per i palestinesi. Ghassan stremato si prepara a dormire sotto le stelle. Da vero beduino, anche se non può più contarle e Sirio non è più una clessidra per le sue giornate. Mohannad starà driblando gli asfissianti controlli delle Idf, magari filmando di nascosto qualche “delicatezza” dei coloni. Mentre tutto il paese, e non solo, è in ansia per la sorte dei tre ragazzi scomparsi.
Avighai sa di aver fatto la cosa giusta. Pensa ai genitori che non sono d’accordo sulla sua militanza in Breaking the silence. Tiene a mente che la battaglia quotidiana affinché i cittadini israeliani e il mondo sappiano cosa accade veramente nei Territori sarà ancora lunga. Molti conoscono la verità e pensano sia un prezzo da pagare alla sicurezza. Altri sono convinti che il primato etico ebraico, in questa maniera, verrà buttato nei rifiuti e il popolo “eletto” perderà l’unica vera e induscutibile protezione, quella di Dio. Per un viaggiatore che può soltanto raccontare piccoli frammenti di verità c’è solo la speranza che questi tasselli possano andare a comporre un disegno più grande. E che la vita nel West Bank possa diventare più dolce, come la polpa morbida e rugosa dei datteri della Valle del Giordano.
Le fotografie sono di Pierre Chiartano