Claudio Conti
Un'emergenza ambientale dimenticata

La terra perduta

Il consumo del suolo, nel nostro Paese, è diventato un problema scottante: dal 1982 al 2010 ogni giorno sono andati perduti 520 ettari di superficie agricola. È tempo di correre ai ripari

Con l’espressione “consumo di suolo” si debbono intendere due fenomeni distinti e non necessariamente complementari: la perdita di terreno agricolo e l’aumento delle superfici “artificiali”. Inizio dal primo aspetto che, secondo la Direttiva 232 – 2006 del Parlamento Europeo e del Consiglio, riveste una importanza strategica in quanto il suolo libero – tra l’altro – è un potenziale insostituibile per la produzione di cibo è una risorsa ecologica ed ambientale multifunzionale: conserva carbonio, regola i cicli idrologici, governa l’umidità, offre rifugio a molte specie animali, è habitat per altre specie, sostiene la vegetazione e le sue funzioni (in primis la produzione di ossigeno e la sottrazione di CO2) ecc.

Spesso poche parole sono sufficienti per descrivere una catastrofe; a volte basta un numero: 520. Sono gli ettari di superficie agricola totale (SAT) che in Italia sono andati perduti in media ogni giorno dal 1982 al 2010: così almeno afferma l’ISTAT. Grosso modo la superficie di Corsico, un Comune dell’hinterland milanese…  ogni giorno. E la perdita complessiva, nell’intero periodo, è stata di 53167 km2: per intenderci, più di 2 volte la Sicilia; quasi un quarto del valore iniziale. Se poi ci limitiamo a considerare il sottoinsieme essenziale costituito dalla superficie agricola utilizzata (SAU), il quadro non migliora granché, in quanto la perdita totale risulta pari ad un quinto del dato 1982.

Nonostante si tratti in fondo di poco meno di un trentennio, numeri di questa entità implicano cambiamenti epocali, che il grafico seguente aiuta a comprendere. Ad esempio, verrebbe da dire che l’agricoltura è di fatto scomparsa in Liguria, dove sia la superficie agricola totale che quella utilizzata si sono contratte di oltre il 60%. Il quadro non è molto migliore in Val d’Aosta, dove – caso unico tra le regioni – la riduzione della SAU risulta maggiore di quella della SAT. Seguono, in questa triste scala della degenerazione ambientale, il Friuli, la Calabria, la Toscana, il Lazio, la Campania, il Molise … ma è inutile ora perdersi in dettagli.

csSul tema del consumo di suolo, e più in generale sulla necessità di politiche “nuove” per il territorio si fa oggi un gran discutere, e non senza ipocrisia, perché tra i sostenitori più accesi dell’esigenza di un radicale ripensamento non mancano quelli che – professionisti e politici – non hanno vigilato quando occorreva, o addirittura sono stati complici della spoliazione.

Naturalmente queste enormi porzioni del nostro Paese sono state sottratte all’uso agricolo soprattutto perché si è costruito. Il grafico qui appresso ci dà una idea del fenomeno: mostra l’andamento dei volumi edificabili autirizzati in un periodo non molto dissimile dal precedente. E’ evidente la “bolla” edilizia scatenatasi tra l’inizio del millennio ed il 2007, che ha visto raggiungere e superare i 250 milioni di m3 annui, di cui 100 milioni per l’edilizia residenziale. In Lombardia il volume medio degli edifici residenziali è di circa 430 m3: stiamo perciò parlando di circa 232000 edifici all’anno, più di un milione e seicentomila in 7 anni.

cs1Con quali esiti? Da un lato crescono le perplessità per progetti faraonici come quello di riconversione dell’area dell’ex Fiera di Milano (3 grattacieli oltre ad una schiera di edifici alti 27 piani che si giustificherebbero in base alla previsione di un flusso di 15000 residenti); dall’altro numerose amministrazioni si vedono costrette a fare i conti con una nuova emergenza rappresentata dagli  immobili vuoti o addirittura abbandonati.

Popolazione_Italia_1861_2008Non manca chi ha giustificato la “bolla” sopra descritta in termini socio-demografici; ma è una argomentazione che non convince alla prova dei fatti: vediamo perché. In primo luogo il grafico precedente mostra chiaramente come la crescita quasi lineare dal 1931 al 1981 abbia in seguito subito un brusco arresto, e solo in tempi recentissimi abbia dato segni di ripresa. Dunque quello compreso tra gli  anni ’80 e gli inizi del nuovo secolo non può definirsi come un periodo di espansione demografica. Ciò nonostante, si deve  sottolineare la tendenza, da parte di numerose amministrazioni locali, a sovrastimare largamente questo aspetto: almeno per quanto riguarda la mia esperienza, non è raro il caso in Lombardia di Piani di governo del territorio (PGT)   che inglobino ipotesi evolutive del tutto irrealistiche per la popolazione locale.

In generale si può osservare che le amministrazioni locali tendono a considerare l’entità della popolazione residente come una variabile autonoma, indipendente; mentre è vero esattamente il contrario.  Tanto più elevato è il potenziale di sviluppo in senso lato di una determinata porzione del territorio, tanto maggiore sarà la sua capacità di favorire l’incremento demografico, sia “naturale” che indotto, attraverso l’immigrazione professionale e non; ma la gravità e durata della crisi che stiamo attraversando fanno sì che casi di questo genere siano assai rari.

Non è tutto. In linea di principio l’esigenza di una casa “nuova” può dirsi caratteristica dei nuclei familiari di imminente, o recente formazione; tuttavia nel periodo tra il 2000 ed il 2008 il numero di matrimoni è declinato da un massimo iniziale per stabilizzarsi attorno ai 245 – 250000 all’anno; mentre è netta la tendenza all’aumento dei casi di separazione o divorzio.

cs2Qualcuno ha provato a stabilire un rapporto causale diretto tra questi ultimi e l’espansione  delle volumetrie residenziali, come se si fosse originata una domanda autonoma di nuove residenze da parte di coloro che escono dal fallimento del proprio rapporto coniugale; ma a me pare francamente  una spiegazione parziale se non ingenua, che confonde causalità con concomitanza.  Viceversa, è indubbia la progressiva diffusione di nuclei familiari unicellulari.

Infine non si deve dimenticare  ciò che oggi  significa per il Paese  il 46% di disoccupazione giovanile: piaccia o meno, si tratta della perdita di una intera generazione, come accadeva nella Francia di Napoleone (ma allora se ne incaricava la guerra, e non l’economia). I giovani che non possono fare assegnamento su un reddito fisso, e in moltissimi casi neppure su un reddito precario, non solo non hanno la possibilità di pianificare un nucleo familiare proprio; ma neppure possono permettersi una propria abitazione.

La fenomenologia  principale del consumo di suolo (perdita di terreni agricoli) comprende alcune sotto-categorie. Tra queste il fenomeno dell’abbandono dello spazio rurale, particolarmente vistoso al Nord in Valle d’Aosta e in Liguria – ed ora si comprendono meglio alcune segnalazioni emerse dal primo grafico; mentre al Sud è evidente in Abruzzo, Molise, Basilicata e Calabria. Oppure l’erosione imputabile alla dispersione urbana (il cosiddetto urban sprawl), particolarmente accentuata nel Veneto e nel Lazio.

cs4Vengo ora al secondo aspetto richiamato in apertura, che riguarda le superfici “artificiali”, comprendenti tanto l’urbanizzato che le infrastrutture. Nel complesso l’estensione è cresciuta ovunque, soprattutto tra il 1990 ed il 2000; a livello regionale il quadro appare ora diverso da quello precedente, in quanto la Lombardia, con una % che supera il 10% del totale del territorio regionale, figura al primo posto, seguita a distanza dal Veneto, dal Friuli, dal Lazio e dalla Campania.

cs5Perché si costruisce in modo da pregiudicare sconsideratamente  l’equilibrio degli ecosistemi, e l’efficacia dei fondamentali servizi che questi ci offrono? Perché le superfici cementificate raggiungono estensioni a volte intollerabili? Del fattore socio-demografico ho già detto; in realtà i motivi profondi debbono essere ricercati altrove.

Innanzi tutto c’è la morsa nella quale si trovano strette le amministrazioni locali, in specie dei Comuni di medie e piccole dimensioni: tra il vincolo del Patto di Sabilità interna e il facile appeal costituito dagli oneri di urbanizzazione che, secondo quanto deciso nelle ultime Finanziarie, possono essere utilizzati fino al 75% per la spesa corrente dei Comuni;  per non parlare delle entrate  derivanti dalla messa all´asta di diritti edificatori su suoli liberi. Come osserva un giovane ricercatore (Francesco Siviglia, “È possibile contenere il consumo di suolo in Italia? Un confronto tra Italia e Germania.”, tesi di laurea):

In sostanza i Comuni, in accordo con promotori immobiliari e aspettative sociali, barattano terreni da cementificare con risorse finanziarie. Questo accade poiché questo tipo di entrate è l´unico quasi totalmente manovrabile dalle amministrazioni comunali. In secondo luogo si deve ovviamente ricordare la componente finanziaria:  anche se ci atteniamo prudentemente ai valori tabellari, il rapporto tra valore immobiliare e valore agricolo è (almeno) di 100 a 1.

A ciò si aggiunga l’affermarsi del modello di “città diffusa” che si sviluppa in assenza di una pianificazione organica, senza “attrattori” o poli di riferimento, caratterizzata da tipologie edilizie a bassa densità (“villette a schiera” e abitazioni uni-bifamiliari, capannoni industriali, centri commerciali ecc.: tutti soggetti alla fiscalità comunale relativa agli immobili);  mentre la presenza  pubblica si limita a poche strade essenziali, a parcheggi, a marciapiedi e malinconiche “aree verdi”.

Attualmente è in corso la revisione della normativa in materia di consumo di suolo sia sul piano nazionale, che a livello locale. A conclusione di questa prima, sommaria esplorazione di un tema tanto complesso desidero esprimere un duplice augurio. Prima di tutto, che si innalzi il livello di vigilanza e di attenzione civica: attentati all’integrità dei suoli a volte si nascondono dietro proposte di legge o provvedimenti apparentemente innocui, come possono essere quelli che stabiliscono la soglia temporale perché un bosco possa definirsi tale, e quindi debba essere protetto. Per intenderci, se spostiamo da 5 a 30 anni questo valore, allora risulta possibile convertire tutte le aree boschive non sufficientemente “anziane”. In secondo luogo che questo processo non si esaurisca semplicemente nella fissazione di limiti, soglie, compensazioni, regole e quant’altro; ma sia l’occasione anche per tentare di affrontare in chiave propositiva i problemi del Paese.

Un esempio a quest’ultimo proposito. Si è visto sopra il peso degli spazi rurali abbandonati. Perché non cercare di trasformarli, almeno in parte, in opportunità? Ad esempio facilitando il processo del loro recupero all’uso agricolo coinvolgendo giovani che non trovano uno sbocco sul mercato del lavoro, e conseguendo in tal modo due risultati importanti: l’arresto del degrado dei terreni ed il mantenimento della loro produttività; un impulso al ricambio generazionale in agricoltura.

Su Affari e Finanza del 18 novembre 2013 si legge: «L’Italia prova a far fruttare la miniera d’oro dei terreni incolti per combattere dissesto idrogeologico e disoccupazione. A fare da apripista con un progetto pilota destinato – si spera – a fare proseliti, è la Regione Toscana che in questi giorni ha messo a punto gli ultimi tasselli per il lancio operativo della Banca della Terra. Il progetto è semplice: censire le migliaia di ettari di campi lasciati a gerbido o in pasto ai rovi (pubblici e privati) per metterli poi a disposizione a canoni concordati e con sussidi ai tanti agricoltori senza terreni da coltivare. Un modo non solo per creare posti di lavoro, ma anche di “incrementare i livelli di sicurezza idraulica e idrogeologica del territorio”. […] Una volta scattata la fotografia del patrimonio a disposizione, la banca provvederà all’assegnazione. Avranno priorità i coltivatori diretti più giovani e il canone d’affitto equo sarà stabilito dall’Ente terre. In caso di campi di privati, il prezzo potrà pure essere negoziato tra le parti. Il risultato sarà doppio: da una parte si rimetteranno in attività aree rimaste improduttive a volte per decenni. Dall’altra si creeranno posti di lavoro e si curerà di più senza troppa spesa pubblica (si sa in che condizioni sono i conti degli enti locali) la stabilità dei terreni. Fatto che in un paese con i guai idrogeologici dell’Italia non è certo un male».

Ovviamente non basta. Perché ogni proposta in materia di consumo di suolo deve confrontarsi con una sfida più ardua. Fino al termine del secondo conflitto mondiale eravamo sostanzialmente un paese agricolo. Nel trentennio ’50- ’70 si è compiuta una immane trasformazione, inizialmente trainata dall’edilizia protagonista della ricostruzione post-bellica, e siamo divenuti un paese manifatturiero. Una gran parte della fascia pedemontana lombarda, un tempo regno della coltura del gelso, ha visto sparire i campi, i boschi e gli orti, sostituiti dagli stabilimenti e dalle nuove case destinate ad accogliere i flussi di nuovi residenti. Una cospicua porzione della Brianza,   una volta fonte di ricchezza e svago per i grandi latifondisti (tra i quali il Manzoni), si è trasformata in una successione – senza apparente soluzione di continuità – di  centri abitati privi di una identità qualsivoglia.

Oggi quella manifattura ha un futuro precario, ammesso che ce l’abbia … Del resto, il presidente di Confindustria lamenta la chiusura di 120000 fabbriche, moltissime delle quali lombarde, dal 2001 ad oggi. Si può allora legiferare seriamente sul consumo di suolo senza decidere preliminarmente quale dovrebbe essere la “vocazione” di quest’ultimo? Certamente no: non si può fare finta di nulla ed essere ciechi di fronte alle profonde trasformazioni che stanno coinvolgendo il nostro Paese; non si può ipotizzare che gli spazi ora occupati da fabbriche chiuse e capannoni abbandonati si possano riservare per future nuove fabbriche, o nuovi capannoni. In parte – forse – potranno essere reintegrati nel comparto agricolo per cercare di restituire slancio ad un settore tuttora vitale per il Paese. In parte potranno essere convertiti – forse – ad aree di socializzazione o a forme di turismo “nuovo”, diffuso, che a mio avviso rappresenta una delle opzioni più interessanti sul tavolo. E infine dovremo pur interrogarci su quali tipologie di impresa, su quali tecnologie ed innovazioni, su quali attività di trasformazione o di servizio sia opportuno puntare per recuperare la “generazione perduta” di cui ho parlato e più in generale per “ri-generare” l’economia nazionale.

Solo allora sarà possibile decidere sensatamente come il suolo possa essere impiegato ed allo stesso tempo protetto.

Facebooktwitterlinkedin