Un saggio pubblicato da Mimesis
Il Tao di Calvino
Nel bel saggio "Il secondo Calvino", Domenico Calcaterra rimette al centro del dibattito sul grande autore la sua dimensione etica. Quella in virtù della quale molti di noi lo considerano ancora un "padre"
Per parlare del bel saggio di Domenico Calcaterra su Calvino – Il secondo Calvino (Mimesis, 177 pagine, 16 Euro) – mi scuserete se parto da un riferimento personale. Per delineare la nuova narrativa italiana emersa negli anni Ottanta mi è accaduto più volte di individuare un filone consistente di nipotini di Calvino, tutti molto “visivi”, a volte da lui direttamente sponsorizzati (De Carlo, Del Giudice…). Solo che La “lezione” culturale e umana di Calvino si ritrova nei suoi eredi come deprivata di alcuni presupposti fondamentali e implosa in molti frammenti separati, tanto da risultare involontariamente parodistica: la ossessiva precisione del lessico o la inesauribile propensione a tracciare mappe del reale o il gusto del collezionista, ma senza la pietas tipicamente calviniana verso i deboli (anche verso gli animali), senza l’umorismo, il disincantato razionalismo, la passione civile, l’iper-problematicismo, e senza l’idea stessa di una critica della società, di «una rivoluzione morale generale» (auspicata in un saggio di Calvino del 1964, raccolto poi in Una pietra sopra).
Uno dei padri riconosciuti del postmoderno italiano si ritrova ad essere depotenziato dentro la più esangue deriva postmoderna della nostra letteratura. Tanto che provai a ipotizzare – con intento satirico – tre distinte figure di giovane scrittore calviniano: il Calvino dimezzato, il Calvino rampante, il Calvino inesistente (mettete voi in ciascuna di queste caselle uno dei tanti scrittori “calviniani” emersi negli ultimi decenni).
Anche perciò mi sembra davvero utile il libro di Calcaterra, che si impegna a ricostruire criticamente il secondo Calvino, dalle Cosmicomiche in poi, illuminando gli snodi fondamentali, rintracciando una precisa genealogia nell’opera stessa dello scrittore, dando il giusto rilievo all’opera per me più importante della seconda fase, e cioè Il signor Palomar. Contro qualsiasi immagine di un Calvino “amorale” si cita un saggio del 1959, dove si auspica un ritorno a una «letteratura della coscienza», che significa «scatto attivo e cosciente», «ostinazione senza illusioni», e dunque non accettare la situazione data e opporsi alla negazione dell’umano. Una letteratura che si configura sempre più come sfida al labirinto, riuscendo a confrontarsi con la filosofia e la scienza novecentesche e ritrovando l’impegno come apertura all’avventura conoscitiva, «sola autentica dimensione politica da consegnare alla letteratura». La preoccupazione dello scrittore è eminentemente etica.
L’opera calviniana, dalla seconda metà degli anni Sessanta, viene scrutinata dall’autore con acume interpretativo e aderenza filologica ai testi: oltre alla Cosmicomiche, Ti con zero, Il castello dei destini incrociati, Le città invisibili, Se una notte d’inverno, Le lezioni americane…, etc. Mi soffermo soltanto su Palomar. Fa benissimo l’autore a criticare la contrapposizione artificiosa Calvino-Pasolini di Carla Benedetti o la vibrante invettiva – letterariamente suggestiva ma davvero un po’ fuorviante – di Moresco. Però avrebbe dovuto confrontarsi più direttamente con il saggio di Berardinelli “Calvino moralista”, in Casi critici, (Quodlibet), che fa i conti con l’assunzione di Calvino a indiscusso classico del nostro tempo e della modernità di fine-secolo, letto e studiato a scuola (dalle elementari fino alle superiori), proprio in quanto totalmente in sintonia con il nostro tempo: la sua opera esprime secondo Berardinelli una fondamentale rimozione del tragico, una ricerca quasi ossessiva di un prudente equilibrio, una specie di coazione al sorriso, una compassata leggerezza anche nel drammatico collasso di un mondo: «Basta non perdere la calma…». E poi aggiunge: «Non dunque di bene e di male parlerà Calvino: ma di riuscita o fallimento, energia o debolezza, precisione o confusione, Il bene per Calvino coincide con lo star bene».
Ecco, credo che occorra rispondere frontalmente a questa radicale obiezione a Calvino, e si può farlo solo ripartendo dalla sua etica dell’impegno, cui prima accennavo, e anche tenendo presente l’appello alla cooperazione del lettore, su cui ha molto insistito Mario Barenghi. Descrizione onesta della superficie del mondo, rifiuto del luogo comune e di ogni essenzialismo, mappatura del visibile, sapendo che ogni mappatura è parziale e ogni conoscenza falsificabile (i suoi due maestri saranno Ponge e Popper). Calcaterra ci aiuta indubbiamente a trovare una risposta possibile, anche se non si confronta con il saggio berardinelliano. E infatti sottolinea la «intrepidità» di Palomar (e perfino certa sua goffaggine e incertezza) contro ogni immagine vulgata di iper-prudenza, e dunque la sua capacità di correre rischi misurandosi con l’esperienza diretta. Alla distanza, sento Calvino come un fratello, forse più di Pasolini, proprio per i difetti che gli vengono attribuiti: eccesso di paura, ricerca di un ordine sapendo che è impossibile, understatement, assenza di certezze profetiche, natura anti-eroica e quasi disarmata.
E ancora: l’«imparare a essere morti» di Palomar come disponibilità verso una esperienza che non possiamo controllare, e quasi esercizio zen, pur dentro l’epistemologia contemporanea: elidere l’io, obliterare la «macchia d’inquietudine che è la nostra presenza» (Calvino) lasciando che tutto continui impassibile ad accadere. L’utopia dell’ultimo Calvino somiglia al Tao di un illuminista.