Un saggio pubblicato da Laterza
Storia del prestito
Amedeo Feniello ha scritto una storia della finanza e delle banche, dal Medioevo in poi, che sembra un romanzo. Senza lieto fine: «il sogno di creare ricchezza con la ricchezza»
Il capitalismo, a dispetto di Marx, sembra vivo e vegeto: qualche défaillance, a vero dire, la incontra, ma non troppo diversamente da un vecchio zio dal passo malfermo. In merito ai primi vagiti, del pestifero vegliardo, più di un fotogramma può fornircelo ora Amedeo Feniello, nel recente Dalle lacrime di Sybille (Laterza, pp. 300, € 16.00), che prende spunto da una scheggia di umana sofferenza rimasta impigliata fra gli scartafacci dell’Archivio di Stato, a Firenze, e per la prima volta tirata su dalle pinze da entomologo di Michele Luzzati, in un suo saggio su Giovanni Villani del 1971.
Una nobildonna del sud della Francia, la Sybille del titolo, resta, giovanissima, vedova di un uomo valens, jocundus et dives, che l’aveva focosamente, seppur brevemente, amata. Presto isolata dalla parentela acquisita, è costretta a vendere alcuni dei suoi possedimenti, dislocati anche nel sud d’Italia, giacché siamo 90 anni buoni dopo il 1266 che ha segnato l’instaurarsi, a Napoli e non più a Palermo, della monarchia angioina.
Bene: quando si tratta di trasferire, per il tramite dei banchieri fiorentini Buonaccorsi, il ricavato delle vendite da Napoli in Provenza, non solo la somma si volatilizza, ma la povera Sybille, che naturalmente si batte come una leonessa per vedersi riconosciuto il suo diritto, finirà stritolata (le “lacrime”, perciò) entro un meccanismo perverso di processi e furbizie avvocatesche.
E Feniello, qui, ha intuìto che «dietro quelle lacrime, dietro il dolore di quella donna vi fosse qualcosa di più. Un universo, o, meglio, una vita nova fatta di uomini, di tanti uomini che, per primi, assaporarono l’euforia del rischio e della finanza, come anche l’oblio del debito e della bancarotta». Insomma, nient’altro che il primo affacciarsi sulla scena della storia del capitalismo finanziario. Con tutti i suoi splendori, e le sue miserie: non ultime, quelle della Lehman Brothers, e ciò che ne è seguìto.
Incomincia così un rocambolesco, folto turbinio di gente e di merci e di denaro e di fortune e di precipitose cadute: fino a quella, rovinosissima, dei Peruzzi e dei Bardi, a metà ‘300, prefigurata – osserva Feniello -, non meno dell’esplodere della peste bubbonica di lì a pochi anni, dal cataclisma (questo, si vorrebbe implorare, il termine bell’e pronto da sempre, in italiano, al posto dell’ormai sempre più trionfante barbarismo giapponese, tsunami) che la notte del 25 novembre 1343 devastò porto e case di Napoli, come ci ha testimoniato un allibito Francesco Petrarca in una delle sue Epistole.
Assistiamo così, nelle quattro parti in cui il libro è diviso, dapprima al fiorire tumultuoso del sistema bancario a partire dalle fiere della Champagne, fino a imbrigliare nella sua rete di filiali, e spostamenti di merci, e lettere di cambio, l’Europa intera, dall’Irlanda all’Africa del Nord, dalle Fiandre al Mar Nero ad Acri in Palestina.
Viene poi lumeggiato il rapporto fra la banca e il potere temporale della Chiesa, o quello, ancor più seduttivo, fra i banchieri toscani e il trasformarsi di Napoli da quasi borgo di pescatori in una capitale («due idee di città si contrappongono: una affollata e densa, arroccata nel vecchio cuore municipale greco-romano. L’altra ampia e spaziosa volta verso il mare. Che si impernia sul Castelnuovo, il Maschio angioino»). Fiorita di chiese gotiche e conventi, il più sfarzoso dei quali è Santa Chiara, caparbiamente voluto, «in una miscela di contenuti che mette insieme influssi gioachimiti e tradizioni classiche, volontà di rinnovamento spirituale e contrasto con l’autorità papale», dalla regina Sancia moglie di Roberto d’Angiò: per un costo finale sul milione e mezzo di fiorini d’oro.
E poi, l’atto conclusivo, lo spalancarsi del baratro: i prestiti al re d’Inghilterra, Edoardo III, che profonde una quantità spaventosa di denaro nella guerra dei Cent’anni, senza alcun costrutto, trascinando così nella bancarotta i Peruzzi, i Bardi e, a scalare, un nugolo di aziende bancarie di Firenze e della Toscana tutta.
Nelle ultime pagine, dunque, dopo essersi tinto dei colori fascinosi dell’avventura, dell’audacia premiata dall’arricchimento e dalla familiarità col potere, spesso dalla gestione stessa, in prima persona, di ampie fette di potere reale, il libro vira sul registro austero della tragedia: «Quasi che […] muoia non solo qualche compagnia commerciale, ma una cultura, una mentalità, una vocazione. Un’epoca: l’epoca del denaro facile dei banchieri. […] Di protagonisti di grandi ascese e di terribili cadute […] dove il sogno fu per tutti lo stesso: creare la ricchezza con la ricchezza». Non sembrano parole tremendamente attuali?