In scena al Teatro Costanzi
Lo stalker di Carmen
Il capolavoro di Bizet ha debuttato all'Opera di Roma. E in quel drammatico colpo di coltello che chiude lo spettacolo c'è un terribile segno di attualità. La prossima settimana si replica a Caracalla, ma in un altro allestimento con l'Orchestra di Piazza Vittorio
Doppia, tripla Carmen nella Capitale. Ieri sera il debutto al Teatro dell’Opera, nella direzione di Emmanuel Villaume, per la prima volta sul podio dell’Orchestra del Costanzi; il 24 giugno poi la tragedia di Mérimée-Bizet aprirà la stagione di Caracalla in inedita forma, perché la musica sarà suonata dalla multietnica Orchestra di Piazza Vittorio; la stessa che a fine anno sul palco dell’Argentina animerà la versione teatrale delle passioni della sigaraia sexy e ribelle.
Insomma, ubriacatura di Carmen, a conferma del fascino di una storia d’amore e morte collaudatissima e di una partitura iperpopolare, nei suoi ritmi ora travolgenti ora plumbei, ma mai usurati, anzi sempre capaci di infilarsi nei precordi. Però la Carmen di ieri all’Opera ha indugiato su un altro aspetto che per noi contemporanei la fa personaggio della porta accanto. L’ultima scena, quella della coltellata che don José rifila alla bella traditrice, si svolge su uno sfondo claustrofobico, reso tale dal chiudersi completo delle due quinte di legno che per il resto della rappresentazione hanno assecondato, nell’invenzione di Daniel Bianco, i cambi di scena. Insomma, il militare e la sigaraia restano confinati in un ambiente scuro, una sorta di spazio fisico e mentale vietato al resto del mondo. Come le quattro mura di casa, quegli interni di famiglia tutti sussurri e grida, squarciati sempre più spesso, sui media, dalla cronaca di un femminicidio. Don Josè è uno stalker, un insicuro reso pazzo dal rifiuto della donna. Lei è sì una sciupamaschi senza scrupoli, però il diritto a scegliersi la vita è di ogni donna, specie se come la spagnola mette bene le carte in tavola, all’inizio di ogni liaison. E dunque il coltello che le leva la bellezza e l’animo è violenza più grave, perché Carmen vuole determinarsi l’esistenza, in un’indipendenza che il luogo comune della supremazia maschile non può ammettere. Addirittura, nella scelta registica dello spagnolo Emilio Sagi, Carmen anticipa la furia dell’ex amante e quasi si getta sul coltello che costui brandisce. Martire della libertà, vuole essere. E anche Erinni all’incontrario, per l’accento che mette, con l’estrema sfida, su quella lama affilata presente in ogni cucina domestica senza esigere porto d’armi. Il coltello proprio in questi giorni in prima pagina, lo stesso tipo d’arma che lacerò Yara Gambirasio, Meredith Kercher, Cristina Omes, la mamma sabato scorso ammazzata con i due figlioletti dal marito informatico.
Questa Carmen hic et nunc ha portato Sagi ad avvicinare temporalmente la storia. Non dunque il 1875, allorché Bizet compì il capolavoro, ma i primi del Novecento. Ci sono in scena lampadine elettriche che la protagonista spegne con un interruttore, c’è un fotografo che nel quarto atto immortala la sfilata dei toreri in piazza. E lei, la fatale Carmen, indossa i pantaloni quando sale in montagna con i contrabbandieri portandosi appresso il suo José indotto malgré lui al malaffare. Una postdatazione del plot forse troppo timida, né carne né pesce insomma, che spiace agli affezionati della zingara sempre e comunque con I voilà, sempre e comunque sensuale. Ed è poco convincente anche la bacchetta di Villaume, talvolta poco incisiva come nell’ouverture del primo atto, talvolta troppo cadenzata, come nel “Toreador, en garde” che accoglie l’ingresso in scena di Escamillo. Deludenti per pochezza coreografica gli intermezzi danzati, mentre hanno dato lustro alla prima soprattutto le protagoniste femminili, una provocante e sicura Clémentine Margaine nel ruolo del titolo e una sapiente Eleonora Buratto, reduce dal successo della tournée a Tokyo con il Simon Boccanegra verdiano diretto da Muti e qui nei panni della mite e coraggiosa Micaela. Don Josè era Dmytro Popov, Escamillo un tronfio Kyle Ketelsen, la folla di Siviglia il coro dell’Opera ben diretto da Roberto Gabbiani (repliche oggi, il 20, 21, 22, 24, 25, 26, 27, 28 giugno).
Applausi comunque a un melodramma che brucia di sentimenti e misfatti. Troppo crudi per l’Opéra Comique di Parigi che aveva commissionato il lavoro a Bizet ma poi ne chiese la censura delle scene più crude, poco adatte al convenzionalismo borghese della propria platea. Il compositore si rifiutò, la prima fu un fiasco e Bizet ne morì di dispiacere pochi mesi dopo. Non fece in tempo a godersi il successo dell’edizione viennese, nell’autunno 1875, allorché Ernest Giraud sostituì la musica ai recitativi. Gli stessi che fanno palpitare l’opera, confessioni ardenti e tragiche come sono. Non per niente Francesco Rosi li ha conservati nella indimenticabile Carmen cinematografica del 1984 con Julia Migenes-Johnson, Placido Domingo e Ruggero Raimondi e la direzione di Lorin Maazel.
Vedremo cosa succederà al Teatro Argentina con la Carmen “parlata”, nell’adattamento di Enzo Moscato. Godrà della firma registica di Mario Martone, dell’interpretazione di Iaia Forte, della coproduzione degli Stabili di Torino e di Roma. C’è da ben sperare per uno spettacolo all’altezza di monsieur Bizet.