Ritorno ai maestri
Salviamo Foucault
Ritrovare un rapporto di causa e effetto tra l'etica e l'esigenza di "dire il vero": la lezione del filosofo francese (travolta o distorta dai foucaultiani) deve tornare a essere il faro del pensiero sociale
Se ci prendesse voglia di rivalutare uno di quei filosofi che, sull’altra sponda dell’Atlantico, hanno fatto furore, e che sono stati accomunati e raccolti sotto l’etichetta di esponenti della French Theory, io suggerirei il nome di Michel Foucault. Rivalutare, sì, perché la sbornia francesizzante dei decenni passati, e che perdura qua e là, è stata seguita da un moto reattivo di ripulsa largamente comprensibile e giustificato, ma che rischia di farci perdere di vista ciò che distingue il bambino dall’acqua sporca, essendo Foucault il bambino e l’acqua sporca tutti i propagandisti di quella Trimurti tardo-novecentesca che mette assieme decostruzionismo, postmodernismo e (post-)strutturalismo. Nomi? I soliti: Deleuze, Derrida, Lyotard, nonché quelli di tutti i loro epigoni.
Non che si senta il bisogno di rimettersi a ragionare sul Foucault «archeologo del sapere» e «genealogista del potere», perché di adoratori del Verbo del filosofo di Poitiers sono affollate le aule universitarie di mezzo mondo, tutti incessantemente impegnati a rimuginare sulle sue formulazioni più astruse, inafferrabili ed elusive – metafisiche, insomma: le bollerebbe così, un analitico, un continuatore della maestosa operazione di igiene concettuale e linguistica promossa dal Circolo di Vienna. (Ai curiosi consiglierei la lettura del capitolo che Michael Walzer, suo antipatizzante storico, dedicò a Foucault, nel suo L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento). No, è il caso di distogliere lo sguardo e concentrarlo su di lui, di isolare la sua figura, liberarla dall’abbraccio mortale degli imitatori e degli amici acritici: di qualche membro della Trimurti non si può affermare che egli non fosse amico, certo. Di Deleuze (nella foto sopra) lo era, per esempio, e tutti ricordano la nota profezia: «Il secolo che verrà sarà deleuziano». Si omette, però, di citare anche la risposta che lo stesso Foucault si premurò di dare, al riguardo, durante un’intervista con M. Watanabe: «Mi permetta una piccola rettifica. Bisogna provare ad immaginare in quale clima di polemica si vive a Parigi. Mi ricordo molto bene in che senso ho utilizzato tale frase, che però va formulata così: attualmente – si era nel 1970 – sono davvero poche le persone che conoscono Deleuze, e solo pochi iniziati comprendono la sua importanza. Ma verrà forse il giorno in cui “il secolo sarà deleuziano”, dove però il “secolo” va inteso nel senso cristiano del termine, vale a dire l’opinione comune contrapposta agli eletti. Aggiungerò che tutto ciò non contraddice affatto che Deleuze sia un filosofo importante. Ma era comunque nel senso peggiorativo del termine che ho utilizzato la parola secolo». Bè, una rettifica non da poco, no?
Forse, accantonando per un attimo il Foucault dei Sessanta e dei Settanta, che sembrava lieto di fomentare ogni focolaio di estremismo politico e sociale (e concettuale), è il caso di dare un’occhiata più da vicino a quello degli Ottanta, a ciò che agitava il suo pensiero, in quei pochi ultimi anni di vita che gli furono concessi: morirà nel giugno del 1984. Pochi, già, ma proprio quel breve segmento temporale sembra il più determinante di tutta la sua carriera: tale era l’impressione dello stesso filosofo che, ripetutamente, tentò di spiegare come soltanto allora la sua traiettoria di pensiero gli si fosse chiarita. Allora, quale il suo punto di arrivo? Come rileggere un percorso accidentato e tortuoso che è stato ritmato da continue svolte? Alla luce di un focus che scandalizzò proprio i suoi più fedeli ammiratori, un centro di riflessione attorno al quale Foucault riconobbe di essersi da sempre instancabilmente aggirato, senza averlo mai compreso: quello della verità. O del dire la verità, più precisamente. «La verità! Follia esaltata di un dio! Che importa agli uomini della verità?»: questo era il Nietzsche del 1873, quello di Su verità e menzogna fuori del senso morale, e, se è mai esistito un suo erede filosofico, chi se non Foucault? Un bel dilemma, dunque.
Ascoltiamo un amico, Paul Veyne: «La filosofia di Nietzsche, amava ripetere Foucault, si presenta come una filosofia non della verità ma del dire il vero (dire-vrai)». E lo stesso, conseguentemente, si può concludere di quella dell’ultimo Foucault, la quale, però, seminò molta insoddisfazione: numerosi furono i foucaultiani ortodossi che presero le distanze dai suoi ultimi corsi al Collège de France e che continuano a considerare quella manciata d’anni di lavoro come un’appendice eccentrica e superflua, quando non nociva: per la «tenuta» globale della sua riflessione, per la conservazione di una sua coerenza. Insomma, nuovi allievi sostituirono quelli vecchi, almeno a partire dal 1980, l’anno di Del governo dei viventi, le cui lezioni sono state da poco tradotte nella nostra lingua: volendo seguire la progressione dei corsi e mancando ancora la pubblicazione di quello successivo, si passa direttamente al 1982, a L’ermeneutica del soggetto, e agli ultimi due, accomunati dal titolo Il governo di sé e degli altri, la cui seconda parte riguarda Il coraggio della verità, ovvero il ciclo di lezioni che terminò nella primavera del 1984 e che impegnò un Foucault già molto affaticato, a distanza di pochi mesi dalla sua morte.
Non che a Foucault dispiacesse più di tanto, l’allontanarsi degli studenti più affezionati e la loro naturale selezione: il terrore di farsi pietrificare, di fissare i propri occhi in quelli di Medusa non lo abbandonerà mai: chissà come giudicherebbe i foucaultiani tutti d’un pezzo, quelli che, ancora oggi, continuano a compulsare i testi sacri, ad accapigliarsi per questioni di filologia minima, a replicare il suo gergo: i migliori frutti del «foucaultismo reale», dell’azione dominante che le filosofie a quella ispirate e di quella debitrici hanno esercitato sulle scienze umane, negli ultimi decenni, stanno altrove, negli irregolari come Frédéric Gros (nella foto), per esempio, che si è occupato indifferentemente di rituali aleturgici, cioè di forme della veridizione, e di «filosofia del camminare». Una che ha espresso un certo astio, quello di chi, evidentemente, si è sentita tradita dalla conversione del filosofo, è Judith Butler, la cui opinione non è facilmente decifrabile. Secondo lei, «quando Foucault inizia a rilasciare dichiarazioni circostanziate e determinate su di sé, su ciò che ha sempre pensato e su ciò che in fondo è, abbiamo tutte le ragioni per diffidare». Perché? Non viene esplicitato. Forse, perché egli sembra procedere, in quegli anni, «nonostante e contro tutto ciò che abbiamo potuto leggere nei suoi libri o ascoltare direttamente da lui», impegnato «in un momento di auto-revisionismo che coinvolge retroattivamente il suo intero lavoro»: e ciò non sembra andare giù alla post-femminista e post-strutturalista statunitense, le cui conclusioni sono paradossali e sembrano alludere a un Foucault che costruisce con le sue stesse mani la gabbia in cui finisce per rinchiudersi: «Quando Foucault ci dice la verità su di sé – e cioè che “dire il vero” è sempre stata la sua preoccupazione, il suo vero problema, e che si è sempre posto in primo luogo il problema della riflessività del sé – dobbiamo chiederci se non abbia, per un momento, sospeso la propria capacità critica, per potersi conformare all’esigenza di dire–vrai, ai requisiti in base ai quali un soggetto può e deve dire la verità».
Si conosce un’accusa più grave da rivolgere a un filosofo? «Sospendere la propria capacità critica» significa situarsi già al di fuori della filosofia, probabilmente, e certamente della filosofia moderna post-kantiana, che ha fatto del progetto illuministico e critico la propria ragion d’essere e la propria missione storica. Mi pare che, per rendere un degno omaggio a chi ha osato rifiutare le amicizie troppo comode e si è voluto allontanare dalle tante scimmiette che lo stavano accerchiando, si debba proseguire la sua opera parresiastica, rivelando la propria verità al potere, quali che siano le sue sembianze (quelle della verità e quelle del potere). Perciò, a chi continua a blaterare di rivoluzioni e fa largo uso di maiuscole, a chi vuole assaltare il Sistema, il Capitalismo e quant’altro, è bene porre domande preliminari e raccomandare esercizi ascetici che possano liberare il sé dalle imposizioni che, altrimenti, finiranno per irreggimentarlo. Prima di approdare al governo degli altri, infatti, il consiglio foucaultiano è quello di mettersi alla prova nel governo di se stessi: sincerarsi di essere alieni dai risentimenti e dalla volontà di sottomettere e di essere sottomessi – volontà gemellari – per evitare di andare incontro a probabili disastri socio-politici e di replicare in piccolo quel dominio che, più in grande, vediamo all’opera; disciplinarsi da soli, prima che altri lo facciano per noi; crearsi un’etica che preveda delle regole nostre, liberamente scelte: in poche parole, ubbidire a se stessi, al fine di diventare dei buoni anarchici.
Se dovessi scegliere quel suo brano che più manda in bestia chi so io, tutti coloro che non gli perdoneranno mai il suo tradimento, ricorrerei alla lezione del 17 febbraio 1982, quella dedicata ai tentativi infruttuosi e falliti di restaurazione (necessaria, secondo Foucault) di un’«etica del sé»: ma non c’è di meglio da fare? Non dovrebbe un rivoluzionario pensare a qualcosa di più elevato e socialmente significativo? A ciascuno la sua risposta. «Eppure, proprio la costituzione di una tale etica è un compito urgente, fondamentale, politicamente indispensabile, se è vero che, dopotutto, non esiste un altro punto, originario e finale, di resistenza al potere politico, che non stia nel rapporto di sé con sé».