Tutti i segni di un fallimento
Roma senza cultura
La Capitale non ha un assessore, non ha un progetto plurale e non si preoccupa di trovare e ridistribuire fondi adeguati. E oggi la gente di spettacolo protesta contro Ignazio Marino
Oggi, la Roma che vive di cultura (poco e male si vive di cultura, a Roma, più esattamente si sopravvive, con la rabbia e con i denti) si ritroverà nel pomeriggio in Campidoglio per manifestare con il sindaco Ignazio Marino. Ormai Marino è un bersaglio che fa acqua da tutte le parti: fa più notizia segnalare qualcuno che lo difende… Ma, tant’è, in effetti, la situazione della cultura a Roma è spaventosa. Qualche esempio per chi vive lontano dalla molto cosiddetta Capitale sarà utile per capire lo stato delle cose.
Primo: da un mese Flavia Barca, assessore alla Cultura, s’è dimessa e il sindaco non s’è sentito in dovere di sostituirla immediatamente. Come se la programmazione culturale, appunto, a Roma fosse un soprammobile. Secondo: il Teatro dell’Opera, sulla strada di un risanamento si spera definitivo, largamente sostenuto dal Mibac e attuato da una delle poche teste pensanti che ci siano in giro in ambito culturale (Carlo Fuortes), avrà nel 2014 dal Campidoglio la cifra monstre di 18 milioni di euro. Terzo: a fronte, il Teatro di Roma per il 2014 ha subìto un taglio sostanzioso (600 mila euro sui circa tre milioni di contributo dello scorso anno). Quarto: il Macro, il museo d’arte contemporanea di Roma, non ha fondi (60 mila euro l’anno per l’attività espositiva, meno che un’elemosina!) né sponsorizzazioni, né un responsabile. Quinto: fervono i preparativi (costosissimi) per la Festa del cinema, una kermesse della cui sostanziale utilità sociale e culturale molti dubitano. Sesto: il Teatro Valle è ancora lì nel limbo dell’illegalità, culturalmente svuotato e con le poltrone sfondate. E ciò malgrado il Comune continua a pagare le utenze dei comunardi direttori artistici e rivoluzionari autoproclamati. Ogni settimana il sindaco promette una soluzione per la settimana successiva. Ma di scelte concrete non se ne vedono: siamo alla lite, ormai, tra Campidoglio e Mibac per chi dovrà spendere i tre milioni di euro che si prevede costerà il restauro della sala settecentesca dopo tre anni di mancata manutenzione.
Ma la manifestazione di oggi non prende le mosse, in modo specifico, da nessuno di questi fallimenti patenti. No, “i lavoratori dello spettacolo” protestano perché la scorsa settimana gli uffici dell’Assessorato alla Cultura (l’assessore non essendoci più) hanno deciso i finanziamenti per l’Estate Romana. Per inciso: è già scandaloso che in un Paese che si pretende civile chi produce cultura sappia dieci giorni prima della realizzazione dei propri progetti se potrà contare o meno su un finanziamento pubblico. Comunque, dalla lista dei sovvenzionati quest’anno sono uscite molte realtà consolidate. A un primo colpo d’occhio, si direbbe che gli impiegati di Piazza Campitelli abbiano tagliato le manifestazioni più marcatamente commerciali (tipo la rassegna di comici televisivi di serie B chiamata “All’ombra del Colosseo”), ma con un po’ di attenzione in più si capisce che non è così. Si capisce che la penuria di denari ha indotto l’assessorato ha fare scelte pseudo artistiche precise. Non contro qualcuno, ma in favore di qualcuno. Molti sommersi e pochi salvati si potrebbe dire, se non fosse un sacrilegio alludere a Primo Levi in un contesto così altrimenti miserabile. Eppure il guaio è tutto qui: non sono mai andato a vedere un solo spettacolo di “All’ombra del Colosseo” né, presumibilmente, mi capiterà mai d’andarci. Ma sono convinto che anche questa rassegna abbia diritto ad avere un sostegno pubblico se rispetta i criteri burocratici che sovrintendono i finanziamenti. Perché lo Stato (e gli enti locali di conseguenza) non sono chiamati a dare indirizzi poetici, bensì a dare sostegno a chi produce cultura. E basta, senza entrare nel merito. Non spetta a un Assessorato né ad altro funzionario pubblico stabilire che cos’è cultura di serie A e che cosa cultura di serie B o che cosa non lo è affatto: stabiliti dei criteri burocratici, chiunque li rispetti ha diritto a un finanziamento. Cancellare questo sì e quello no è semplicemente un modo per lambire il fantasma della cultura unica. Favorire una rassegna aumentandone i finanziamenti e strangolare di contro un festival riducendone i contributi significa fare scelte critiche e ideologiche: ciò che non spetta a un funzionario per il semplice motivo che un impiegato dello Stato non ha strumenti critici per compiere scelte del genere. A voler essere maligni si potrebbe ricordare che i regimi totalitari – sia detto per il bene degli ignoranti – hanno sempre favorito la cultura unica e la propaganda non con le armi della censura vera e propria bensì, appunto, con quelle dell’acceso o meno ai finanziamenti pubblici. Ma nei casi in questione più del dolo io credo che entrino in gioco le amicizie, le simpatie personali, le cene, i salotti. Il che, se vogliamo, è anche peggio.
Può darsi che oggi pomeriggio il sindaco Marino abbia altro da fare, può darsi che abbia da sturare qualche tombino ingorgato dalla guerra che – giustamente, questa sì – sta facendo ai vertici dell’Ama. Ma se avesse tempo di dire qualcosa a chi lo andrà a trovare in Campidoglio, farebbe bene a dare subito il nome del nuovo assessore alla Cultura. Ha già perso troppo tempo: in un qualunque Paese civile d’Europa, una capitale da settimane senza titolare delle cose culturali sarebbe commissariata. E poi Marino forse dovrebbe anche ammettere che invece di coprire d’oro qualcuno e affamare qualcun altro bisognerebbe formulare un criterio di finanziamenti chiaro e limpido e univoco, non basato sull’appartenenza a gruppi o cricche o etichette o salotti. Ciò che Flavia Barca aveva promesso al momento della sua nomina, ma purtroppo non è riuscita a fare.