In giro per mostre, a Roma
Quadri da abitare
Clerici alla Gnam, Franco Ferrari e Mario Moretti da Carla Mazzoni, Lina Passalacqua allo Studio S: piccolo manuale per entrare nelle opere d'arte. Non solo per guardarle
Non limitatevi a guardare un dipinto. Anche quello che avete comprato o ereditato e poi esibite in salotto come un ospite di riguardo. Lo sguardo, col tempo, smette di guardare. Un buon quadro chiede di più. Vuole essere abitato, attraversato, usato, interrogato come una casa sconosciuta che per magia diventa vostra: dov’è la cucina, la stanza da letto, come funzionano i fornelli, perché questa chiave apre così a fatica, che c’è oltre la finestra, chi altro ci vive? O come un paesaggio, un luogo o un non luogo, che vi si para davanti, a volte desiderato, più spesso inatteso. Un quadro insomma è una meta e un viaggio. Una proposta o un trasloco forzato che ci trascina verso l’altrove cui ha dato forma.
Qualche esempio, rubato da mostre in corso, che volendo potreste anche voi visitare. Eccoci così in una sala della Galleria d’arte moderna, che per l’estate ha deciso di sottrarre al letargo del magazzino e restituire alla vista una grande tela di Fabrizio Clerici (1913-1993), il più raffinato dei pochi grandi maestri del surrealismo italiano. Un capolavoro intitolato «Sonno romano» (un particolare, nella foto accanto al titolo). La porta è spalancata, entrate: è l’autore ad invitarvi a girare per quell’enorme polveroso stanzone, pieno di cimeli, statue e frammenti di sculture, assi di legno, casse da imballo divelte, altri oggetti, ma a farlo con cautela perché neppure lui può garantire cosa succederebbe se l’incantesimo di quel riposo, che ha ritratto a metafora di Roma, dovesse rompersi in un brusco risveglio. E poi rischiate di sprofondare in qualche trabocchetto, pestare un chiodo, ferirvi con qualche sporgenza, chissà: dettagli e volumi sono così nitidi, taglienti, la luce che piove dall’alto, così fioca e gessosa, non si sa mai.
Dove siamo? In un teatro non c’è dubbio. Non a caso Clerici è stato anche un grande scenografo. A me sembra però più un teatro di posa che un palcoscenico a sipario aperto. Un set di un film in lavorazione, tra una pausa e l’altra di un ciac, la macchina da presa ferma su un piano sequenza interrotto, che punta la messa a fuoco sul corpo lattiginoso di una donna dormiente, unica attrice rimasta in scena. Interpreta la Santa Cecilia di Bernini, quella che se ne sta accovacciata in una nicchia dell’omonima Chiesa di Trastevere. Così calata nella sua parte da sembrare non la statua di una martire ma una donna vera. Sbrigatevi a registrare, annotare, e battezzare, se le riconoscete, altre sculture antiche che appaiono nella penombra a ricordarci che questa in cui viviamo è una città che dorme un sonno di sangue e di marmo, di storia e finzione: da un momento all’altro la cinecamera tornerà ad allontanarsi lentamente fino alla dissolvenza finale.
Come si può guardare un quadro così, senza entrarci dentro?
Cambio di scena: la nuova sala espositiva che Carla Mazzoni, storica gallerista, ha appena aperto in Prati, via Mompiani 2, trasferendosi dal centro. Come insegna e manifesto programmatico un nome ammiccante: «I preferiti». In cartellone per il debutto i quadri di quattro prestigiosi interpreti di lungo corso della pittura contemporanea. Quattro diverse proposte di viaggio, di interni ed esterni da attraversare. Per distillare il mistero che rende unici i quadri di Franco Ferrari (qui accanto) bisogna entrare nelle due case diverse che ha costruito lì sulla tela e accettare di sdoppiarci per percorrerle nello stesso momento e poi ricomporle in una visione unitaria all’uscita. Il primo appartamento è popolato da figure enigmatiche, tratti che si sfarinano come sudari di mummie o guizzano in varie direzioni come fumi di roghi ma occupano lo spazio come padroni di casa. Sopra e sotto, divisi da fasce geometriche, gli appartamenti dell’ombra, nubi cupe e sottili che probabilmente appartengono a quei corpi ma non ne rispettano i contorni. Un andata e ritorno nei labirinti di un duplice mondo sotterraneo e invisibile.
Il luogo in cui Mario Moretti ci trascina è invece il punto mentale dell’orizzonte. I suoi quadri inseguono il vuoto e il silenzio, obbligandoci a galleggiare in uno sfondo di colori impalpabili e ariosi. Possono simulare il cielo, il mare o il deserto ma sembrano sempre svanirci attorno come miraggi. Fornendo alla retina che rischia l’asfissia d’alta quota o l’annegamento solo un appiglio, cui aggrapparsi per respirare: una luna su in alto, una duna che si increspa come una coperta, il bagliore di vita di una sterpaglia.
Da anni Marilisa Pizzorno (qui accanto) vive e ci spinge a condividere un suo mondo a parte. Un villaggio sul mare, di cui in una bella mostra precedente ha anche sbozzato una maquette. Case bianche, archi e linee di geometrie semplici e pure disegnate su cieli di colori rarefatti, abitate da un popolo di figure, uomini e donne, glabre, occhi assorti, corpi di gomma, movimenti bloccati, mai scomposti. Irresistibile la tentazione di sedersi insieme a loro, o con loro tuffarci, condividendo il senso d’attesa che ha così levigato il loro tempo.
Con Ennio Calabria torniamo a misurarci con la voce più profonda della vita umana e della ricerca di senso. A inseguire con la pittura come spiega nel suo saggio in catalogo l’essenza sfuggente della cosa in sé, oltre le modalità ingannevoli del pensiero, il frastuono di una società che ha smarrito le parole per dirsi, la necessità di farlo. Ogni suo quadro impone l’immersione e un tragitto, solo in apparenza agevolati dalla figura che si offre come guida. Può essere il volto di un Proust che si lascia accarezzare e sommergere dal tempo perduto come affondasse e riemergesse da un mar di placenta, o quello di Italo Calvino, un bimbo in braccio una bara a fianco, che rispecchia l’enigma, le domande in sospeso di chi deve fare i conti con la vita e la morte, o infine il volto stesso dell’autore, in un autoritratto recente teso e dolente come un viaggio al termine della notte. Quanto del nostro mondo riconosciamo nel suo?
Altra mostra, nella galleria Studio S, di Carmine Siniscalco. Altro linguaggio: il collage. Altri due modi di dominare lo spazio, altre due case da abitare. Morbida, frusciante come la seta di una tendina scostata per affacciarci sui paesaggi, sugli scorci di natura che i suoi lavori adottano come rifugio, l’atmosfera del luogo fantastico in cui Lina Passalacqua (qui accanto) ci introduce. Il collage come rigoroso ancoraggio preparatorio, la pittura ad olio come approdo finale, sviluppo senza varianti di quell’impianto razionale ed emotivo, di immagini e colori. I ritagli di carta incollati come fili d’Arianna per tornare indietro dal labirinto. Intrigante il confronto con l’altro artista in esposizione, il salernitano Ernesto Terlizzi. Qui l’uso della carta, miscelato con traiettorie eleganti di segni e innesti di legno o di pietre incastonate nel quadro non è più punto di partenza ma il cuore stesso dell’altrove in bianco e nero verso cui ci conduce. Un trasloco nel territorio di una concisa, rarefatta astrazione di increspature, forme che suggeriscono la leggerezza del volo, materiali che ci riportano a terra.
Basta non limitarsi a fare i voyeurs.