L'Italia di Berlinguer/1
La polvere di B.
Non è più tempo di santini: il leader del Pci ha segnato il proprio tempo per i suoi passi in avanti sempre troppo lenti e per quel senso diffuso di polveroso, di inadeguato ai tempi, di angusto...
Non ho mai amato Berlinguer, la mia generazione non l’ha mai amato (o almeno: quella più attiva negli anni ’70, caoticamente disseminata nei gruppi della allora nuova sinistra). Bisognerà pur dirlo alle nuove generazioni.È vero, ai suoi funerali ci fu una partecipazione popolare straordinaria. In lui percepivano una nobiltà, una moralità della politica che stava per tramontare. Quei funerali sancirono – in modo struggente – la fine di un mondo e di un’epoca. Inoltre: l’ultimo comizio a Padova ha qualcosa di straziante, con il segretario del Pci che sembra rimandare la propria morte per poter concludere l’intervento. Però non ho mai amato Berlinguer, pur riconoscendo in lui una felice attitudine, poco italiana (probabilmente sarda), alla discrezione, alla sobrietà, al ritegno personale. Quella integrità adamantina si fondava tra l’altro su alcune reticenze e omissioni, e Berlinguer usava spesso un linguaggio sclerotizzato, in fondo inafferrabile come quello di Moro (ad esempio l’ “eurocomunismo” – formula da marketing politico low cost – doveva essere democratico ma anticapitalista, etc., tutto e il contrario di tutto…). La stessa “questione morale”, che pure ha un carattere profetico se pensiamo a tangentopoli, etc., si è rivelata un paravento assai fragile, troppo legata al patriottismo di partito (e alle sue liturgie).
In un recente libretto Laterza – Berlinguer in questione – la filosofa Claudia Mancina parla del suo stile paludato e si chiede se quei voti, quel famoso 34,4 % delle elezioni del 1976 lungi dal costituire una sua vittoria personale, furono invece da lui dissipati, passando dalla strategia del compromesso storico (dopo la grande paura del golpe cileno) a un improvviso dietrofront – dopo la morte di Moro, la chiusura della destra Dc (e pressioni americane), la contestazione dalla base del Partito stesso, il sabotaggio attivo di Craxi (avverso all’alleanza PCI-DC) – con la dichiarazione di “diversità” comunista, e con tutta la sciagurata enfasi identitaria da essa implicata. Nel romanzo di Francesco Piccolo, prossimo vincitore allo Strega – Voglio essere come tutti – si contrappone infatti il primo Berlinguer (buono) al secondo (cattivo). Quel passaggio brusco, benché motivato dai fatti (basti pensare alla strategia della tensione), fu in effetti abbastanza spaesante, e soprattutto non interamente spiegato. E poi dietro la orgogliosa “diversità” si cela il principale errore della sinistra italiana: credersi (aprioristicamente) migliori degli altri, dunque non fare nessuno sforzo per esserlo davvero!
Va bene, occorre storicizzare, e sarebbe assurdo negare alcuni meriti appunto storici di Berlinguer: progressivo e, benché lentissimo, distacco coraggioso dall’Urss, almeno dai tempi di Praga (nel 1973 sfuggì per questo a un attentato a Sofia!), perseguimento ostinato della linea togliattiana della via italiana al socialismo, presentimento del degrado del sistema dei partiti, etc. Ma sentivo in lui qualcosa di polveroso, di inadeguato ai tempi, di angusto. Sempre Claudia Mancina ne sottolinea – mi pare in modo critico – l’aspetto di critico della modernità e dei consumi, riferendosi all’austerità, etc. Magari lo fosse stato con più convinzione e con più ricchezza di idee, con più immaginazione politico-culturale e con più inventività di linguaggio. La sua austerità – dopo la crisi petrolifera – appariva grigia, penitenziale, eppure c’erano già gli Ivan Illich che tentavano di declinarla diversamente. In una delle ultime tribune politiche confessò con intima soddisfazione che durante le vacanze si era riletto il Marx giovane (ancora?). Ma ciò che sembrava mancargli era un contatto vivo con il pensiero ambientalista e femminista, con il filone libertario, con il sapere dell’antropologia e delle scienze umane (aveva invece una solida cultura storica), con la tradizione del radicalismo cristiano, etc.
No, non ho mai amato Berlinguer. Ho invece amato altri leader politici, altre figure eminenti della nostra sinistra, diciamo così più eretiche e imprevedibili, spesso minoritarie: ad esempio Vittorio Foa, Aldo Natoli (e negli anni ’70 Marco Pannella), che sentivo più vicine alle nostre inquietudini e ai nostri sogni.
Clicca qui per leggere gli altri interventi sull’Italia di Berlinguer: Lidia Lombardi, Andrea Carraro, Alessandro Boschi