Blade Runner a Roma
Occupazione d’arte
In fondo alla Prenestina, a Roma, c'è il Maam, un ex salumificio occupato trasformato in «museo dell’altro e dell’altrove». Un esperimento (riuscito) di fusione tra le arti e le suggestioni contemporanee
Blade Runner a Roma. La stessa atmosfera forte da Medioevo prossimo venturo del film di Ridley Scott. Lo stesso vortice di naufragi di senso che divora lo sguardo: il relitto di una barca che sbuca dall’incasso di una finestra, una gigantesca astronave di cartapesta e rottami che troneggia in mezzo a un cortile, una serie di ventagli di ecografie tagliuzzate appesi come farfalle sui binari di un rugginoso nastro trasportatore, barattoli di pianticelle che sbucano in orizzontale da un muro. Ma qui non ci sono giustizieri che danno la caccia ai replicanti, automi assassini sospesi tra la terra e il cielo. Non c’è l’aria cupa da mondo postatomico al collasso. C’è solo una vecchia fabbrica in disarmo da anni, il salumificio Fiorucci al numero 913 della via Prenestina, occupato, riusato come complesso d’abitazioni da un comitato di senza tetto e sfollati di paesi diversi e a poco a poco trasformato in una strampalata passerella per ogni tipo di arte.
Il museo dell’altro e dell’altrove l’hanno ribattezzato, coniando un acronimo, il Maam, che è una sfida di libera creatività al sistema dell’arte e all’universo falso e togato dei grandi musei pubblici del contemporaneo. E c’è il clima di una festa, annunciata da una megascritta FART sul tetto del palazzo più alto, che chiama a raccolta un manipolo di autori con e senza patente per celebrare insieme l’inizio dell’estate. E rimpolpare con nuove opere il catalogo di icone e visioni che tracima in ogni spazio libero.
Una mostra? No; piuttosto un labirinto di suggestioni, assemblate a casaccio per aumentare spaesamento e sorpresa. Difficile per chi visita il Maam distinguere gli ingredienti nuovi imbanditi per insaporire l’occasione dagli allestimenti d’altre manifestazioni che in modo più o meno spontaneo si sono accumulati in quel dedalo di stanzoni fatiscenti, tetti di lamiera, corridoi, rampe, cortili ancora invasi dai vecchi macchinari della fabbrica, e soprattutto nelle sale che le famiglie di occupanti si sono ritagliati ad uso collettivo. E hanno addobbato e impreziosito con guizzi di fantasia e gusto per il riciclaggio. Canestri e retine di basket costellati di lucine d’albero di Natale che pendono dai soffitti come lampadari; la stanza giochi dei bambini decorata con stencil color caramella e sorvegliata da faccioni sorridenti di mamme disegnate alle pareti; un giardinetto di fiori e di piante incorniciato da un ninfeo di segni colorati su fondo rosa, il laboratorio per i computer tappezzato di tappi e inserti di perline colorate a mimare un labirinto di sinapsi elettroniche e circuiti stampati; totem e mascheroni di legni e metalli sovrapposti che ti sbucano di fronte ad ogni angolo, un ascensore, che ovviamente non funziona, dipinto d’oro a rimarcare e sbeffeggiare il lusso delle case dai ricchi, cui questo popolo di ingegnosi proletari non avrà mai accesso.
Guizzi di design anarchico e improvvisato affiancati dai lavori delle firme più o meno note della street art che in questo fabbricone di periferia trasformato in condominio e falansterio hanno ritrovato il loro palcoscenico ideale. Come la gatta camuffata in un nido di foglie che Cancelletto (nella foto), diva dell’arte di strada, ha effigiato a mo’ di quinta. Come lo zoo di mostri e mutanti che deborda da ogni frammento di muro e intonaco. Come l’affresco che Lucamaleonte ha dipinto due anni fa sulla parete grande del bar: una scena da fumetto di fantascienza, alieni con tentacoli e testoni da rospo che contendono un paio di fanciulle a qualche astronauta in divisa, inventata per una rassegna che invitava a immaginare questo presidio di periferia come un pianeta sconosciuto su cui noi romani lontani e distratti facevamo naufragio.
Uno spettacolo totale, coinvolgente e chiassoso. Impossibile, lo ripetiamo, e tutto sommato inutile, isolare in questo assedio di immagini, quelle che si trascinano appresso marchi e intenzioni d’autore di qualità più evidente. Ma certo qualche opera si stacca da questa cornice di emozioni e frastuono. Come la cupa battaglia navale con cui Gianfranco Notargiacomo occupa un’intera parete: sagome di navi e aerei stagliate su un mare blu prussia solcato dai tracciati rosso fuoco degli spari. Come l’incantevole stanzetta nella quale Danilo Bucchi mette in scena con quei segni d’alfabeto infantile l’universo incantato di Pinocchio (nella foto sopra). Come la pioggia di volti femminili che Angelo Colagrossi lascia galleggiare in un vuoto di filamenti di colore. Come le grandi foto trattate al computer con cui Alessandra Pedonesi evoca la folla violenza della guerra alternando ombre femminili a tappeti di bombe. Come un altro campionario di magnetiche fotografie con cui Francesca Romana Guarneschelli imprigiona le sensazioni di atmosfere straniate da misterioso pianeta sprigionate da riprese di paesaggi metropolitani e interni sfocati da luci accecanti di questa fabbrica che ospita la sua mostra. O come, infine, la irridente allegoria di due pittori spagnoli, Gonzalo Orquin e Pablo Mesa Canella, affrescata sui muri della sala della ex pelanda, ancora solcata dai macchinari e dai binari della macellazione: un corteo di corpi scuoiati e sanguinanti di maiali chiuso da due animali che sfuggono al massacro volando. La cappella Porcina: un titolo che fa il verso al capolavoro di Michelangelo.