La crisi culturale di Roma
Il museo in affitto
Ormai è un'abitudine per tanti artisti in cerca di visibilità (e mercato), "comprare" spazi espositivi. Musei compresi. Come il caso del Macro, ormai senza soldi né progetto. Ma con un'eccezione: le opere di Cecilia Luci
Pagare per riuscire ad esporre i propri quadri, emergere o riemergere dalla palude della disattenzione che ha inghiottito anche autori più titolati? Da giorni, nell’ambiente dei pittori romani, ci si arrovella attorno a questo dilemma. Ad aprirlo è stata una grande collettiva promossa con una rumorosa grancassa mediatica. Un titolo ad effetto, che promette di spalancare chissà quali porte: Triennale d’arti visiva. Completano il quadro: il coinvolgimento nell’operazione dell’Università, che ha messo a disposizione la Facoltà d’Ingegneria, e di un museo privato di prestigio come la Fondazione Crocetti sulla Cassia; un critico doc come Achille Bonito Oliva assoldato per la conferenza d’apertura; una decina di maestri di rango chiamati gratuitamente in passerella a far da specchietto per le allodole e costruirci attorno un cast di un centinaio di comprimari, convinti a pagare per partecipare all’evento. E messi dentro senza alcun filtro. Con un ritorno di qualità che è facile immaginare. Insomma: una mostra che non serve a nessuno. Non agli artisti più bravi, il cui talento si perde e si avvilisce nel mucchio. Né a quelli più scarsi che sognavano chissà quale lancio: nel giro, occasioni come questa non fanno neppure curriculum. Una fabbrica di illusioni.
La goccia che sta facendo traboccare il vaso. Basta, non se ne può più. Perché false occasioni come questa si stanno moltiplicando: da tutta Italia via Internet arrivano offerte di collettive internazionali a tariffa. Vuoi approdare a New York, a Londra, a Parigi? Un tanto a quadro e sarai accontentato, una o più foto in un catalogo bilingue, spese di spedizione e rischi assicurativi a tuo carico. Per sopravvivere alla crisi anche molti galleristi privati si sono trasformati in affittacamere: il costo varia dal trattamento che cerchi, catalogo, pubblicità, tenuta della mostra. Piccoli affari certamente. Chi cerca, a suo rischio, business e ritorni a tempi lunghi, punta a un circuito più ambizioso, quello dei musei pubblici, che restano un passaggio obbligato per incoronare ambizioni e carriere, far levitare se non altro le quotazioni nel giro del collezionismo che non si è ritirato ancora dal mercato.
L’arte contemporanea trasformata in arte a gettone. Sta avvenendo un po’ ovunque, in modi più o meno camuffati. Al museo Bilotti, alla galleria d’arte moderna, per alcune iniziative di contorno persino al Maxxi, dove insieme ad una proposta, magari anche interessante, devi portare in dote almeno uno sponsor. Ma il caso più emblematico è quello del Macro. Un museo in saldo. Il budget per le mostre ridotto ad appena 60 mila euro l’anno, il personale decimato, il sostegno dei collezionisti privati e una ricca sponsorizzazione dell’Enel spariti e messi in fuga dalle indecisioni e dai tempi lunghi del Campidoglio, un regime di reggenza che si trascina da un anno, la cabina di regia dell’assessorato alla cultura rimasta vuota dopo le dimissioni di Flavia Barca. Per tirare avanti e alimentare in qualche modo l’attività delle due sedi di via Reggio Emilia e di Testaccio, la direttrice protempore Alberta Campitelli che a giugno lascerà comunque l’incarico, non ha trovato altro modo che intercettare qua e là offerte chiavi in mano. Il cartellone estivo è stato riempito così. Una carrellata di artisti finlandesi pagata dalla nazione che chiedeva ospitalità; Tsibi Geova un pittore di Tel Aviv portato in trasferta promozionale dall’istituto di cultura israeliano, una rassegna di pittori astratti offerta da un museo argentino. E così via anche per gli ultimi titoli del cartellone, appena inaugurati.
Il caso si sostituisce al progetto. Poco importa che a conti fatti si tratti comunque di mostre dignitose, a volte anche stimolanti. Come quella di Chittrovanu Mazumdar, artista di padre francese e madre indiana, residente a Calcutta, promosso da una critica d’arte in carriera che ne sta curando il lancio sul mercato: nella grande sala che il ritiro dell’Enel e dei suoi contributi ha liberato presenta un percorso sulla memoria e sulle emozioni rimosse scandito da tre istallazioni allestite in sequenza di forte impatto. Per completare l’allestimento dello spazio rimanente la fretta, o forse una certa presunzione modaiola della curatrice, due pessime consigliere, ha spinto ad affiancare a questo intrigante spettacolo l’algida e pretenziosa messinscena di un artista svedese, Annika Larsson, presente a Roma come borsista dell’accademia tedesca, che si è cimentata in una impalpabile ed ermetica rivisitazione di un testo anni trenta di Bataille: muri tappezzati di immagini che evocano le parole del saggista francese con rimandi spesso indecifrabili che fanno da specchio ad un lunghissimo video, su cui scorrono scene di vita vissuta accavallate da sbalzi di registro poco coinvolgenti e illeggibili. Quando la smetteranno certi autori in formazione di nascondere con l’assenza di comunicazione il già fatto e il già visto?
Tra tante occasioni colte al volo al Macro, una sola ci riserva in questo museo in dissoluzione l’emozione di una vera scoperta. È la mostra, curata da Marco Tonelli, che porta alla ribalta una fotografa romana sopra i quaranta, Cecilia Luci, che ha imboccato una svolta d’alta classifica, puntando l’obiettivo della sua camera, che prima si misurava con i fantasmi della realtà, dentro le sue emozioni e il suo inconscio. Le sue immagini conquistano con la forza misteriosa di quadri astratti. E come quadri sono composti: a sostituire il segno sono i riflessi e le orme di corde che tagliano lo spazio come soglie d’altrove, schegge di vetro sovrapposte che moltiplicano echi e risonanze; a rimpiazzare la tavolozza sono filtri che colorano di bagliori opachi lo sfondo. Ma il vero colpo d’ala è il piano di lavoro che fa da cavalletto e da tela: gli oggetti sono posati sul fondo di una vasca coperto da un letto d’acqua. Un diaframma di sogno che cancella l’apparenza, ci trascina in profondità.