L'Italia di Berlinguer/2
L’isola comunista
Gli anni Settanta sono stati così pieni di contraddizioni e di illusioni che la stessa realtà sfuggiva alla nostra comprensione. Come la "rivoluzione" tentata dal leader del Pci
Non sono un politologo, eviterò quindi di osservare la figura di Berlinguer da questo punto di vista. Cercherò invece di raccontare a voi e a me stesso che cosa ha significato, soprattutto a livello simbolico, Berlinguer nella mia vita. La prima volta che sentii pronunciare la parola Berlinguer potevo avere 11 o 12 anni, ed ero sul pullman della scuola diretto ai campi sportivi insieme a tutta la scolaresca. La mia scuola era un istituto religioso esclusivo dei fratelli maristi frequentato dalla Roma-bene pariolina e di altri quartieri limitrofi. Io non appartenevo a quel ceto benestante, la mia era una famiglia di umili impiegati, ero stato messo lì perché alla scuola pubblica mi ero rivelato un disastro (avevo chiuso in bagno per due ore una maestra, fra l’altro) e avevo bisogno di disciplina. Una misura temporanea, precisava sempre mio padre, ch’era comunista e ateo fino al midollo e detestava pariolini e preti.
Insomma, ero sul pullman coi miei compagni di classe che facevano un baccano del diavolo, fra lazzi, inni, motti, strilli… Uno degli inni preferiti era una parodia fascistoide di Bandiera rossa che faceva: «Avanti popolo, alla riscossa, dei comunisti volemo l’ossa, e se qualcuno ce lo impedisce, noi je facemo er culo a strisce…». Io mi professavo comunista come mio padre, che a quell’epoca idolatravo sopra ogni cosa. E dunque mi guardavo bene dal partecipare a quei cori ingiuriosi. E arrotavo i denti in silenzio colmo di rabbia e risentimento. Il mio amichetto del cuore era accanto a me sul sedile, si chiamava Claudio, si professava fascista (a casa il padre aveva un busto bronzeo del duce): io lo amavo e lo odiavo allo stesso tempo. Fatto è che a un certo momento Claudio mi pianta addosso due occhioni di sfida e mi fa:
“Tu che fai tanto il comunista…”,
“Beh…”,
“Lo sai chi è Berlinguer?”.
Lo avevo sentito nominare, forse, ma di sicuro non sapevo chi diavolo fosse e mi seccava tantissimo doverlo ammettere. Perciò risposi:
“Certo, e allora?”
“Allora, lo sai che Berlinguer fa tanto il compagno, il comunista, e in Sardegna è proprietario di un’isola?…. Un’isola capisci? Bel modo di fare il comunista!”
Rimasi senza parole. Mi aveva stracciato, disintegrato. Allora non potevo sapere che quella stessa logica, una trentina di anni dopo, l’avrei ritrovata nel libro di un noto saggista e critico letterario così baldanzosamente riformulata: Sei comunista? Dimostralo.
Quella sera, o forse la sera dopo, alla tv c’era una tribuna politica presieduta da Jader Jacobelli. I capi di partito erano tutti allineati dietro un tavolo a ferro di cavallo e il moderatore, il mitico Jader per l’appunto, occupava un seggiolino girevole in mezzo e dava la parola ora all’uno ora all’altro. La scenografia del programma era disadorna, asettica. L’atmosfera ingessata del format appariva accentuata dal bianco e nero. I leader dei vari partiti, discutevano, anche animatamente, ma niente a che vedere con i dibattiti spesso inurbani e grevi di oggi. Mio padre, stravaccato sulla sua poltrona, stava dicendo che Berlinguer non avrebbe dovuto sedersi accanto ad Almirante, e soprattutto non avrebbe dovuto rispondergli con tutta quella cordialità.
“Perché?” – chiesi.
“Perché Almirante è un fascista, caro mio, ecco perché! È un reduce della Repubblica Sociale, un fascista vero… È contro gente come quella che abbiamo combattuto e molti di noi sono morti…”
“Però è molto educato…”
“Sì, educato, educato – sbuffò mio padre liberando una nuvola di fumo grigio dal naso e dalle labbra. – È Berlinguer ch’è troppo educato con lui…”
Colsi la palla al balzo.
“Però ammetterai ch’è comodo fare il comunista quando si hanno un sacco di quattrini e perfino un’isola…”
“Cosa dici? Chi ti mette in testa queste sciocchezze? Accidenti a me e quando ti ho fatto andare a quella scuola!”
“Perché, non è vero che è proprietario di un’isola in Sardegna?”
Mio padre mi ripeté di non dire sciocchezze; di quell’isola non ne sapeva niente, ma non l’avrebbe mai ammesso con il figlio, proprio come era accaduto a me col mio amichetto.
* * *
Berlinguer fu segretario del partito comunista dal 1972 fino all’anno della sua morte, 1984. Anni cruciali per il paese, anni drammatici, segnati dallo scontro ideologico, dal terrorismo, dall’omicidio di Aldo Moro. Per me furono gli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza, anni di scoperte e di delusioni. La politica mi interessava poco a quel tempo, anche se incideva pesantemente, coi suoi miti, coi suoi simboli sulla mia esistenza quotidiana. A scuola, all’università lo scontro sociale era palpabile e spesso risultava impossibile non schierarsi. Io mi dichiaravo sempre enfaticamente comunista, ma frequentavo gruppi pariolini, mi vestivo come loro, parlavo con il loro gergo. Insomma vivevo in modo vagamente schizofrenico e non di rado rischiavo di prenderle tanto dai rossi quanto dai neri. A parole sembravo un Savonarola, ma di fatto ero assai pavido. Scappavo regolarmente come sentivo aria di burrasca. Ero sempre sul chi vive. Disertavo le manifestazioni, gli scontri. Berlinguer era presente nella mia vita di quegli anni come qualcosa di solido e lontano, un’icona sfocata e rassicurante che si animò giusto un poco quando venne preso in braccio da Benigni. Troppo poco sapevo di tutto per capire fino a che punto quell’uomo gracile e onesto stava incidendo sul tessuto politico e morale del nostro paese con le sue scelte di rigore, la sua “questione morale”, la netta presa di posizione contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, il compromesso storico, la linea della fermezza sul caso Moro… Sotto il suo apparente grigiore da burocrate di partito, la sua mitezza, si nascondeva l’animo di un uomo fermo e deciso, capace di prendere decisioni importanti.
Ai suoi funerali non partecipai perché quello stesso giorno si celebravano quelli di mia nonna, che se n’era andata in ospedale alla fine di una straziante malattia. Volevo molto bene a mia nonna, e faticavo a comprendere la decisione di mio padre di disertare il funerale della suocera per andare a quello di Berlinguer. Non l’aveva presa bene neppure mia madre, quella decisione, a dire il vero: la sera prima c’era stata maretta fra loro. Mia madre gli aveva rinfacciato, tanto per cambiare, il suo disinteresse per tutte le questioni della famiglia, e lui aveva replicato solennemente: «Ci sono momenti nella vita di un uomo in cui gli affetti familiari devono passare in secondo piano!». E così il mio vecchio andò a rendere onore a quel grande uomo politico comunista, a quel compagno illustre, insieme a 1 milione di altre persone commosse, fra cui anche il rivale politico Almirante, che si attardò davanti al feretro nello stupore generale.
Clicca qui per leggere gli altri interventi sull’Italia di Berlinguer: Lidia Lombardi, Filippo La Porta, Alessandro Boschi