A proposito de “L’armata dei sonnambuli”
Lampi di rivoluzione
Il nuovo romanzo del collettivo Wu Ming racconta il 1789 dal basso. La Storia sprofonda nel fango e si fa torbida. Inseguendo le evoluzioni di un comico che decide di farsi paladino dei poveri
De L’armata dei sonnambuli (di Wu Ming, Einaudi, 640 pagine, 21 Euro) colpiscono tante cose. L’approccio, il tono, l’atmosfera. Ma la domanda che si ripresenta ad ogni capitolo, quasi ad ogni pagina, è sempre la stessa: ma che razza di romanzo sto leggendo? Questo libro, infatti, si distacca molto dalla più ortodossa idea di romanzo storico e non si fa riserve a gettare il lettore in un mondo caotico, ingarbugliato, in cui politica e mesmerismo s’intrecciano senza indugio, mentre giustizieri mascherati salvano il popolo da improbabili teppisti snob.
Certo, il tema principale è la Rivoluzione Francese, con i drammatici anni immediatamente successivi alla presa della Bastiglia. Ci sono le lotte intestine tra le fazioni, i moderati, i montagnardi e tutto il resto. C’è anche la narrazione delle passioni che animarono le assemblee e le rivolte, ma in cui i grandi personaggi – i vari Danton, Robespierre e Marat – sembrano voler fare giusto da comparse. Insomma, il pubblico che si aspetti una precisa disamina delle scelte politiche e degli equilibri tra partiti rimarrà, se non deluso, quantomeno sorpreso.
Il collettivo Wu Ming non si è accontentato di raccontarci la Storia, con la “S” maiuscola, che pure ha a cuore; ci ha voluto parlare anche di una “storia altra” in ogni senso, quella fatta di armate di soldati ipnotizzati, di macchine folgoratrici, di femori placcati d’argento e di paesi dominati da streghe. Una storia che magnetizza il lettore, riuscendo soprattutto a sorprenderlo per la sua dinamicità e varietà, in un andamento che non scade mai nel disordine e che strizza l’occhio alla commedia, al romanzo picaresco e anche al fantasy.
Un simile risultato si raggiunge specialmente grazie al linguaggio, grande protagonista di questo romanzo. Lo stile si alterna tra vari toni: prevalentemente incontriamo il discorso posato, controllato, e però in grado sprigionare una grande energia – in particolare nei momenti d’azione e nella narrazione dell’interiorità dei protagonisti – grazie anche ad alcune coloriture ottenute soprattutto con l’uso di termini bassi e gergali. Altre volte, invece, la parola viene presa dalla voce del popolo, che proprio di questa gergalità fa il proprio punto di forza, con un vociare al limite dello sproloquio. Tantissimi neologismi, alcuni di sorprendente espressività, che sballottolano il lettore ora qui, a sentire il giacobino che vorrebbe decollare ogni “aristocrasso”, ora lì, con la magliara che si lamenta del prezzo del pane e degli accaparratori, i “monopolatori”. Particolarmente arguto l’utilizzo dei dialetti italiani, per la resa delle varie parlate provinciali delle zone più remote della Francia, in cui il lettore rintraccia accenti veneti, bolognesi e bergamaschi. Questo congegno linguistico scatta continuamente, diverte e insieme rende vivida la storia “sporca”, quella vista da coloro che, oltre a costruire barricate, dovevano badare alla fame, al freddo e alla fatica; di quelli che erano costretti al pericolo, al compromesso, e all’improvvisazione.
E a proposito di improvvisazione, il teatro è un tema fondamentale. Il romanzo è strutturato in cinque atti, ognuno dei quali è suddiviso in scene (di numero variabile). Uno dei protagonisti, Léo, è un attore italiano; è proprio lui a travestirsi da Scaramouche, maschera della Commedia dell’arte, per dedicarsi alla difesa dei deboli e dei poveri e finendo col diventare un idolo delle folle. Una delle grandi rivoluzionarie raccontate è una ex-attrice, e persino i matti internati al manicomio di Bicêtre amano dedicarsi alla messa in scena di rappresentazioni. Insomma, il romanzo si sostiene sulla farsa, in un senso che sa andare anche oltre l’aspetto tematico e che si dipana in domande implicite sulla veridicità di quanto narrato. Come sono andate veramente le cose durante la Rivoluzione Francese? Chi affermava cosa, e con quale obiettivo? E i personaggi di cui leggiamo, quelli che si muovono tra i vari Robespierre e Leclerc, sono realmente esistiti? L’ultimo atto è un’appendice storio-biografica in cui gli autori si dilungano sulle sorti dei protagonisti come Léo, D’Amblanc e Marie, citando fonti d’archivio e anagrafiche, e non dimenticando di ragguagliarci anche sulle successive vicende della rivoluzione e dei reali di Francia. Dell’esistenza di questi uomini e queste donne si parla con la stessa naturalezza con cui si racconta di eserciti ipnotizzati e di guardie stroncate col flusso magnetico. Ma allora, a cosa dobbiamo credere? Cosa è stato inventato, cosa descritto?
Ci troviamo infine davanti ad una narrazione sì romanzesca, ma talmente densa da sconfinare col torbido, un fitto in cui il confine tra verosimile e improbabile svanisce senza ripensamenti. Che razza di romanzo stiamo leggendo? Si voleva raccontare una storia dagli spunti storici e insieme farseschi e fantastici? Lo si voleva fare divertendo, interessando, e al contempo inducendo il dubbio e la riflessione, non solo sui fatti ma anche sulla realtà della storia stessa? Beh, se sì, ci si è pienamente riusciti.