In margine a una mostra romana
Dialogo sull’arte
Due artisti, Ennio Calabria e Danilo Maestosi si confrontano, con le loro opere e con un breve saggio, sull'idea di arte e interpretazione del mondo. Due modi diversi di esprimere passioni, idee e disagi
Lunedì prossimo, alla AOCF58-Galleria BRUNO LISI, via Flaminia 58 si aprirà una “mostra incontro” centrata – per la cura di Ida Mitrano – sul rapporto tra due artisti affatto diversi: Ennio Calabria e Danilo Maestosi. Il confronto sarà sull’idea stessa di arte e sulla sua rappresentazione. Che cosa vuol dire essere artisti? A questa domanda, in pratica, hanno risposto Calabria e Maestosi, non solo con le opere in mostra, ma anche con uno scritto, una sorta di dialogo sull’arte, che qui vi proponiamo.
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Ma si può continuare a tirare il passante per la giacca e quando lui ti chiede: “che vuoi?”, rispondere che non vuoi niente?
Può ancora la pittura continuare a mostrare, in una ormai noiosa reiterazione, le proprie arterie per dimostrare che, al contrario dei linguaggi digitali, la pittura è un organismo vivo?
Anche se quello fu un potente argomento giocato dall’informale per consentire alla pittura di contrapporsi all’egemonia crescente della foto – che le aveva tolto la funzione di consegnare al futuro l’immagine del presente – oggi appare solo un argomento di valore puramente concettuale.
Non si può mostrare per un tempo infinito i muscoli, senza che qualcuno chieda alla fine: “beh, fammi vedere quanto sollevi”. A Roma si dice: “sei bella ma nun balli”.
Insomma la pittura deve tornare in campo, deve reintercettare la coscienza condivisa della propria nuova funzione, deve sostanzializzare la propria identità in rapporto e in concorrenza con la realtà apparente, che è l’unica certezza condivisa nel sociale dalla parzialità delle coscienze individuali.
Io sono un pittore figurativo che oggi perde i suoi ormeggi culturali, ma che ha bisogno non per scelta, ma per vocazione, di fornire a sé e al lettore un numero maggiore d’informazioni e d’indizi di quanto ne necessitino a un pittore astratto o a un artista concettuale. Il principio è che l’invisibile si manifesta in relazione al visibile e l’inconscio ha bisogno del conscio per rappresentarsi. Penso che un’immagine del profondo riesca ad essere ciò che presume di essere, solo se inscritta in un’immagine identificabile del mondo. Penso che il conscio proponga e che l’inconscio risponda e penso che la vera risposta dell’inconscio sia intrinseca al principio di realtà e che abbia una densità direttamente proporzionale alla forza del nostro investimento sul conscio.
Fuori da questa risposta simbiotica alla realtà, l’inconscio si falsifica in un gioco creativo attorno all’enigma.
Domenico Guzzi raccontava che Freud disse a Salvator Dalì: “non apprezzo il suo inconscio, ma la sua capacità di simularlo!”. La pittura non è come la musica che penetra con violenza senza chiedere il permesso. La pittura quando svolse una funzione sociale, cioè quando riuscì a superare il limite dell’accoglimento della sola coscienza individuale, si servì dell’iconografia. L’iconografia era una sorta di radiografia interiore del potere sociale e, in rapporto ad essa, l’artista rendeva evidente la propria libertà dalle liturgie assiomatiche contenute nello stesso spartito iconografico.
Gianfranco Ferroni diceva che un artista al quale s’imponeva, per esempio, il vincolo della crocifissione, era infinitamente più libero dell’artista contemporaneo che, aggiungo io, la società pone fuori dal rapporto con sé.
Non esiste libertà senza sbarre, perché la libertà è un bene relativo e mai assoluto. Ci si libera sempre da qualcosa o da qualcuno. Penso che la pittura può avere la potenza dell’erotismo che fa capitolare ogni principio di fronte alla forza dei sensi.
Così l’opera è espressione del peso gravitazionale della vita che si oppone al percorso oleato del pensiero. Mentre il pensiero spesso si sostituisce alla realtà, la pittura invece fonda la propria forza testimoniale sugli indizi che il tempo svela.
Prima la società offriva alla pittura la propria immagine iconografica. Oggi, nell’attuale spaesamento, è la pittura che offrirà alla società un profilo iconografico e la nuova icona sarà la definizione che proviene dallo spaesamento e da quella “saturazione anestetizzante” della personalità di cui parla Baudrillard che è generata dall’eccesso di “dispositivi – tecnologici”, per usare un’espressione di Mauro Vespa.
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Credo che a riconsegnare alla pittura il senso e la necessità che in tanti, sposando l’estetica dello spettacolo e del rumore, le hanno negato sulla scena del contemporaneo, quasi fosse una lingua morta, sia la profondità da cui muove e a cui può arrivare. È lì dove il linguaggio è magma di pulsioni in gestazione, e non si è pietrificato negli schemi della rassegnazione e dell’indifferenza, che un artista può riaprire varchi nella cortina che avvolge la società della superficie, strapparle orizzonti, direzioni possibili per misurare con la propria identità anche il mondo, il tempo, la storia.
La pittura come uno scavo, traiettoria tra il consapevole e l’inconsapevole, dal visibile all’invisibile, senza altra distinzione che l’urgenza e l’ansia di verità che guida attraverso detriti e stratificazioni, conquiste e naufragi, archetipi e icone. Archeologia, dunque. Ogni quadro una sfida: dove indirizzare il piccone, quando passare al setaccio? Comunque qualcosa di simile alla fede di un rabdomante, che dalle vibrazioni della bacchetta riconosce la presenza dell’acqua. E ridà luce al pozzo del mistero. Un po’ come abitare il fondo della grotta immortalata da Platone.
Le figure con il loro ancoraggio all’assoluto, al reale che appaiono, si disegnano, come ombre, fantasmi, proiezioni, rigurgiti di ricordi personali o di memoria collettiva..Un richiamo alla vita e al vissuto che genera nei miei quadri – deformazione da scrittore – l’alito del racconto come punto di partenza, fuga verso l’astrazione. Non importa se l’opera dice di meno, di più, altro dal titolo che in genere la battezza. Se evoca un richiamo a una figura o ne reclama l’assenza. Un gioco da acchiappanuvole, dar loro un nome è un arbitrio, ma come resistere alla tentazione?