Un racconto inedito
Vite in apnea
«I miei occhi fissavano il fondo vuoto e scuro dell’antico cratere di Miseno fino all’attimo in cui ho perso l’equilibrio e sono caduta in quelle acque giallastre». Doppia avventura di mare
La barca era inclinata e lasciava una scia schiumosa intanto che virava verso sinistra. Scrutavo l’acqua torbida e buia con una mano, lentamente. Le ferite aperte sulle dita mangiucchiate mi davano dolore al contatto con il sale. Accanto a me, i sorrisi dei miei amici risucchiavano l’echeggiare denso della luce del vespro, quando la Stella Madre prima di voltare la testa sprigiona l’ultimo raggio immenso che taglia le pupille e ti fa sentire vivo. Le onde inghiottivano la nebbia umida e afosa e i labiali mimavano parole che non comprendevo. Dovevo restare attenta, perché in quella stabilità precaria non finissi giù. Era rabbioso il rumore della vela latina a quadroni rattoppata, con la rigida caduta poppiera dal fusto di canna di bambù mentre si gonfiava, trattenendo il Vento Africano che la sporcava con la sabbia del deserto.
I miei occhi fissavano il fondo vuoto e scuro dell’antico cratere di Miseno fino all’attimo in cui ho perso l’equilibrio e sono caduta in quelle acque giallastre.
* * *
– Devi saper nuotare e imparare a tenere gli occhi aperti sott’acqua, è importante – mi diceva mio padre in un giorno caldo, tra gli scogli di Bacoli. Mi arrampicavo sulle sue spalle e mi lanciava all’indietro nel mare chiaro e dal fondo sassoso. La verde scogliera, grembo del vulcano nascosto, scendeva ripida e recintava la striscia sottile della costa. Davanti Procida riemergeva dall’abisso espandendosi come una macchia d’inchiostro nero sui quattro muti vulcani sommersi. Le contrade di Terra Murata s’inerpicavano sulla lingua di tufo giallo del piccolo borgo medievale che degradava piano dalla cinta di mura della fortezza al mare scuro tagliato dalla roccia.
Strizzai gli occhi e li spalancai mentre le voci giocose e ovattate risuonavano lontane. I passi sordi sul legno pitturato d’azzurro e il beccheggiare della barca battevano assordanti nello stomaco e nel petto. Cominciai ad agitare freneticamente le gambe piccole e pesanti mentre la corrente forte del mulinello le trascinava giù. Un bruciore in mezzo alle gambe e un calore improvviso salì lungo il mio ventre e i seni. Solo dopo mi resi conto che nel dimenarmi mi ero pisciata addosso. Ma non ebbi il tempo di provare vergogna.
* * *
Tenevo la grande mano bianca di mio padre mentre salivo con fatica i gradini stretti di pietra che si arrampicavano a tornante e separavano il mare dalla casa dell’imprenditore Sergio. Erano trecento gli scalini e il sole picchiava forte sulla testa mentre le braccia arrossate ardevano allo sfregarsi con la vegetazione secca cresciuta selvaggiamente lungo i lati. Dall’alto, frammenti di spiagge si escludevano con muri invisibili. Si distinguevano per le forme dei corpi: mogli grassocce spalmavano insofferenti le creme sulle facce dei bambini; uomini effeminati e muscolosi si abbracciavano come amanti; naturalisti mostravano le imperfezioni della loro carne.
– Sei stanca? – mi domandava.
* * *
– Non ce la faccio, la corrente è troppo forte – pensavo. Abbassai il capo gonfiando bene i polmoni, mi spinsi in avanti con il corpo e m’immersi tutta. Muovevo le braccia e le gambe in sincrono per sfuggire alla fossa sotto il mare. Erano inutili le bracciate che vedevo sfocate e verdognole mentre la luce filtrava rimbalzando tutt’intorno, perdendosi poi in quella grandezza paludosa e maleodorante.
* * *
– Giuseppe per favore aiutami! – diceva Raffaella, la compagna di Sergio, a mio padre. La casa affacciava sul mare e il Vesuvio era enorme. La costa frastagliata dell’Isola di Capri s’insinuava con furia sotto la pelle increspata dell’acqua. Dentro s’alzavano i monti asciutti e l’altopiano di Anacapri giganteggiava come un epico guerriero issava la sua spada. Arroccata la sfinge di granito rosso della villa di San Michele che austera scrutava il Golfo di Napoli e Tifeo, il gigante che regge sulla schiena l’isola di Ischia.
Sergio con la sigaretta tra le dita la spingeva fuori, oltre la soglia che dava sulla grande terrazza assolata. Barcollava e i pantaloni di lino larghi gli scendevano sotto il sedere mezzo scoperto. La camera sapeva di whisky invecchiato e di fumo che mi seccava la gola. Gli occhi suoi stanchi fissavano l’aria e un accenno di sorriso mostrava la bocca carnosa con un rivolo di saliva da una parte e i denti consumati e neri di nicotina, con un incisivo tagliato a metà.
– Sergio smettila e rientra… – gli intimava mio padre appoggiandogli un braccio sulle spalle. Non riusciva a tenersi in piedi, aveva chiuso gli occhi e pareva stesse per svenire. Raffaella muoveva qualche passo indietro per allontanarsi ma senza vedere il divano che le era vicino e urtando il bracciolo era caduta sul pavimento. Provava ad aggrapparsi allo scrittoio di legno per rialzarsi ma la posizione innaturale e la mano malata non glielo permettevano.
* * *
I soffi corti e controllati non durarono molto e riemersi dopo qualche secondo mangiando quanta più aria possibile, avidamente, e nell’inspirare ingoiai quell’acqua putrida che sapeva di detersivo. Non ero avanzata nemmeno di un millimetro e le braccia del mare continuavano a stringermi. I bronchi gracchiavano mentre provavo a prendere fiato sperando che l’ossigeno mi desse finalmente sollievo.
* * *
L’ennesima boccata di sigaretta, e poi, spegnendola, subito ne accendeva un’altra. Sergio fumava quattro pacchetti di Marlboro rosse al giorno. Seduti a tavola tra una forchettata di spaghetti al pomodoro e un tiro di sigaretta blaterava frasi senza senso, mentre noi restavamo muti e ingobbiti sui piatti.
– Giuseppe diglielo tu, ti prego, che non deve fumare così tanto e bere in questo modo… Io non ce la faccio più… – diceva Raffaella con il braccio nascosto sotto la pancia coprendo la mano piccola, da neonato, dovuta a una malformazione.
* * *
– Aiutatemi, vi prego – gridai ma le parole non uscivano per il respiro singhiozzante. La barca era più lontana e riuscivo ora a vedere solo delle macchie colorate immobili con lo sguardo appoggiato sul mio corpo. Le forze venivano meno. Ebbi la consapevolezza che sarei annegata dopo qualche attimo. Fu allora che le grosse ali di un gabbiano nero iniziarono a planare sulla mia testa in giri concentrici e perfetti. I suoi acuti strilli mi confondevano. Finché sentii l’impatto fragoroso dell’animale sull’acqua e così scomparve. Abbassai gli occhi ed era come se mi fossi iniettata una dose di morfina nelle vene: d’improvviso mi calmai.
* * *
Nel mare quieto e freddo di Bacoli, dopo il coraggioso tuffo dallo scoglio più alto, mio padre con le sue grandi mani sotto le mie braccia, mi sollevava tutto d’un colpo, mentre i miei occhi di sale bruciavano, con qualche colpo di tosse buttavo fuori l’acqua.
Le barche vuote dondolavano vicine alla riva, legate con una corda robusta alle colonne di metallo impiantate sulla roccia. In attesa delle ore prima dell’alba, quando i pescatori con le reti sfidano le correnti del mare.