Alla vigilia del voto
Ricostruzione italiana
«Nel nostro Paese ormai gli onesti , che lavorano fanno sacrifici e rispettano le regole, sono considerati fessi. Il modello vincente è la furbizia che aggira le regole... Per questo dobbiamo ricominciare da capo». Parla Vannino Chiti
Il senatore Vannino Chiti che dal 2008 al 2013 è stato vicepresidente del Senato e che vanta una carriera politica di tutto riguardo ha presentato alcune settimane fa un progetto di riforma del Senato che ha fatto discutere sia dentro il suo partito, il Pd, che fuori. La sua proposta ha rappresentato infatti una sorta di competizione con quella del Governo e del presidente del Consiglio e segretario del suo stesso partito, Matteo Renzi, che invece ne aveva presentata una diversa. Così, in quei giorni Chiti si è conquistato le prime pagine di tutti i quotidiani ed è stato intervistato in varie tv locali e nazionali. Poi sia a causa della campagna elettorale che degli emendamenti alla proposta di riforma del Senato e a quella del titolo V della Costituzione che riguarda il rapporto tra lo stato centrale e le Regioni che saranno presentati il 28 maggio, è scomparso dalla scena politica e mediatica. Cosi in attesa di parlare, dopo le elezioni della sua proposta di riforma, abbiamo deciso di incontrarlo e di fare con lui una chiacchierata su temi generali di cultura e di politica che di questi tempi ci riguardano tutti.
Oggi l’Italia si trova in una situazione molto difficile sia sul piano economico che su quello culturale. Quali pensa siano le cose da fare per sollevare il paese da questo stato di prostrazione?
Bisogna intanto sviluppare un’opera di largo raggio e di lungo tempo che magari non produrrà nessun immediato consenso elettorale, ma che si rende necessaria per il paese in generale. Si tratta di una sorta di ricostruzione di valori comuni in primo luogo costituzionali, valori che non sono nuovi e si trovano dentro la costituzione repubblicana, valori che prima di essere di destra o di sinistra ci appartengono e ci devono accompagnare nel percorso della costruzione europea. Intendo dire innanzi tutto la legalità, che deve essere fatta propria dal mondo della politica e sentita profondamente dal popolo italiano, poi la riforma delle istituzioni della democrazia che devono essere fortemente legittimate dalla partecipazione dei cittadini, ma in grado di decidere. Poi c’è da costruire una serie di riforme che riguardano lo sviluppo del nostro paese e il diritto all’occupazione. Oggi il diritto al lavoro è tornato ad essere in Italia e in molti altri paesi europei un tema centrale. Senza la possibilità di un lavoro non si costruiscono l’autonomia, la dignità e il futuro di ogni persona. Quindi questo deve essere un tema centrale per l’Italia che può su questo giocare molte carte. Il diritto al lavoro si costituisce infatti sia attraverso una formazione adeguata cioè il sistema dell’istruzione, sia attraverso quello che viene chiamato lo sviluppo sostenibile e l’Italia ha tutte le caratteristiche di beni culturali e di valori ambientali per poterlo fare.
Come analizza i motivi del rifiuto della politica da parte degli italiani?
Nel rifiuto della politica io vedo due tendenze che vanno affrontate in modo diverso. La prima richiede alla politica sobrietà, impegno, competenza e capacità di far corrispondere le parole ai fatti. E quando questa corrispondenza viene a mancare si deve dare una spiegazione. Questo è un sentimento che la politica deve fare proprio e deve guidare la sua innovazione. Poi c’è un’altra spinta quella dei cosiddetti populismi che vogliono sostituire alla democrazia rappresentativa che noi conosciamo forme di democrazia parziale, di partecipazione diretta sia essa un’assemblea o la rete informatica e che basandosi su questo vogliono contestare le istituzioni repubblicane e democratiche. Questa seconda tendenza non va assecondata , ma va contrastata culturalmente e politicamente con delle riforme. Ad esempio se i cittadini presentano un’iniziativa di legge popolare questa deve avere una risposta, non può essere messa nel cassetto. E questa tendenza deve essere contrastata, e queste sono forme positive di contrasto, ad esempio anche attraverso la possibilità di svolgere referendum non solo abrogativi ma anche propositivi. In questo caso la democrazia rappresentativa riesce ad assumere al suo interno anche forme di partecipazione diretta. Deve essere contrastato invece in modo forte e alternativo sia culturalmente che politicamente quel populismo reazionario che contesta le istituzioni dei vari paesi e con esse la democrazia sovranazionale. Questo populismo reazionario rifiuta i diversi che siano immigrati o persone che hanno tendenze sessuali differenti, colpisce la solidarietà e trasforma la convivenza civile in una giungla in cui vincono i più forti o i più furbi.
Fuori d’Italia tutto ciò che è italiano è prezioso raffinato e ricercato. In una parola amato. Mentre qui da noi è il contrario. Come spiega questo atteggiamento e perché’ noi non riusciamo ad avere un’identità che ci permetta di amarci?
C’è una tendenza purtroppo molto profonda e radicata che vive da sempre nell’humus del nostro paese e che tende a evidenziare gli aspetti negativi più che quelli positivi. Se per esempio ci si trova in un aeroporto straniero dove ci sono ritardi o c’è uno sciopero succede che gli italiani non protestano e non si lamentano, mentre se la stessa cosa accade in territorio nazionale si passa subito ad un’autocritica feroce. Questo sentimento è legato alla fragilità con cui è avvenuta la nostra unificazione nazionale che seppure è riuscita a creare un’unità linguistica e religiosa non è riuscita e determinare una coesione statuale come invece è accaduto in altri paesi come la Francia e la Germania che ha saputo rendere il suo sentimento nazionale equilibrato con l’organizzazione federale dello stato che funziona in una dimensione europea. Anche noi in una dimensione sovranazionale dovremmo far sentire uno stato moderno, meno farraginoso, meno burocratizzato e più efficiente . E per questo occorre sentimento positivo, che ce la possiamo fare. Un altro aspetto di questo nostro non amarci è costituito dal fatto che se questa è «la notte dove tutte le vacche sono nere» non si vedono le differenze. Questo è un modo per assolvere tutti. In questa autocritica generalizzata infatti c’è un toglierci le responsabilità, un dire «siamo italiani, siamo fatti così». E così nessuno è mai responsabile di niente. Nessuno vede cosa compete a lui in quanto semplice cittadino, politico o imprenditore. C’è un sentimento di frustrazione e di autoassoluzione insieme. Non ci sono mai né le responsabilità di chi non si impegna, né quelle di fare ciò che ci compete. Penso che questo aspetto abbia finito per accentuarsi in questi ultimi anni perché si è perso un filone culturale che era dentro la parte più positiva del nostro paese, una tradizione trasversale che va da Gramsci a Gobetti ai fratelli Rosselli a Sturzo. L’Italia non ha mai compiuto quella rivoluzione culturale e morale di cui avrebbe avuto bisogno, una rivoluzione che avrebbe dovuto generare nella società civile quei robusti anticorpi per difendere la responsabilità del fare; anticorpi che ci sono in molti altri paesi europei e che vengono prima delle leggi, che le condizionano e condizionano la loro attuazione. I mali della politica vengono affrontati come se quelli che fanno politica venissero da Marte e non fossero persone che sono in Italia e non venissero votate dagli italiani. Negli anni berlusconiani non c’è stato solo il fallimento di un partito, di una destra che non ha saputo essere moderna europea, occidentale, portatrice di una visione neoliberale che seppure io non condivido, rientra tuttavia nell’alveo democratico. C’è stato anche il fatto che le persone che l’hanno condivisa anche in modo acritico non hanno mai fatto i conti con quel fallimento, con se stesse e con quelle che sono state le impostazioni che hanno determinato quello che si è verificato. Che non è affatto superato. Infatti, oltre a Berlusconi c’è il berlusconismo; cioè quei valori e quel sistema culturale al cui interno c’è una visione basata sul fatto che non è bravo colui che lavora, fa sacrifici, obbedisce alle regole, vive dentro la legalità, ma chi invece fregandosene della legalità consegue un obiettivo. Invece non è bravo, ma fesso colui che non consegue questo obiettivo con quei metodi. Questo sentimento che mina e rende fragile la società italiana va superato. In Italia c’è bisogno di una ricostruzione valoriale. Berlusconi invece ha santificato la mentalità del furbo, una mentalità che c’era nel popolo italiano che tuttavia con lui si è solidificata. Quest’idea che non pagare le tasse sia un peccato veniale è gravissima perché va a minare le fondamenta del senso civico di ognuno di noi, specie quando a commettere questo reato è un personaggio che riveste una funzione pubblica. In paesi come gli Stati Uniti questo è un reato considerato dai cittadini gravissimo rivelando proprio il senso di partecipazione di ognuno di loro. E marcando un’identità di valori che mette diritti e doveri sullo stesso piano di praticabilità. La nostra mancata identità è dovuta al processo di unificazione del paese che ha determinato una fragilità proprio nella società civile dove c’è stata dapprima una contrapposizione tra mondo laico e religioso e poi, durante la guerra fredda, un essere terra di frontiera che ha imposto una contrapposizione di mondi sul piano ideologico. Questa mancata unificazione di valori viene prima dell’essere di destra o di sinistra e trova le sue radici in una mancanza di fiducia nello stato. E si concretizza in un completo vuoto di quel senso civico presente nei paesi anglosassoni, che si basa sul senso della comunità, sul fatto che essa appartiene ad ognuno di noi perché il bene comune è di tutti e di ognuno di noi. E dobbiamo prendercene cura, perché è un modo di prenderci cura di noi. È un fatto individuale e collettivo allo stesso tempo. Che in alcune regioni come la Toscana, l’Umbria o il Trentino o in alcune regioni del Sud o in alcuni strati della popolazione italiana è più accentuato e sentito. Adesso complice la crisi , si stanno verificando percorsi che vedono impegnati in questa battaglia settori diversi come il mondo della scuola dove si insegna ai bambini a tenere in ordine e pulita la classe dove stanno. Il bene pubblico è mio come degli altri e quindi me ne devo occupare. Cosa che in Giappone è già da tempo una realtà. E’ da lì che bisogna cominciare. Un fatto collettivo che è presente nel mondo del volontariato in settori che vanno dalla sanità, al sociale, a temi ambientali e che appartiene all’Italia e alla sua tradizione da sempre.
Vivo negli Stati Unti da circa 25 anni e mi viene spontaneo paragonare i due paesi. Cosa dovremmo prendere dall’America e cosa invece gli americani dovrebbero imparare da noi?
Noi prendiamo dagli Stati Uniti solo cose parziali. Pensi alle primarie che adesso si fanno anche in molti paesi europei compresi noi. Lì c’è però un grande equilibrio. Ognuno elegge i propri rappresentanti in base alla popolazione in ognuno dei partiti e quando sono terminate una convenzione approva il programma definitivo per quel comune o per quello stato o per il governo federale o per il presidente degli Stati Uniti. E se nessuno emerge come vincitore è la convenzione che decide e il candidato può anche essere uno che non ha partecipato alle primarie. Questo è il suo funzionamento che assicura l’elemento della partecipazione. La società occidentale ha assunto e continua ad assumere molti elementi della cultura popolare americana. Il nostro immaginario collettivo è intriso di musica, televisione e cinema americani. E adesso saranno accentuati ancora di più proprio grazie al trattato che si sta discutendo tra Stati Uniti e Unione Europea. Mi piacerebbe molto il presidenzialismo americano per l’unione europea: il presidente eletto dai cittadini, una Camera come quella che eleggeremo domenica prossima alle elezioni europee e un Senato che sostituisca l’attuale Consiglio europeo. Lì il presidente esercita il potere esecutivo ma ci sono camera e senato con poteri equilibrati. Quello che noi Italia e noi Europa possiamo dare agli Stati Uniti è invece un modello di competitività equilibrata con elementi di collaborazione, di cooperazione. E dove ci sono margini forti di uguaglianza, almeno di opportunità di vita, specie in momenti fondamentali dove ognuno gioca se stesso specie in settori come la formazione-istruzione, la sanità sociale e di economia sociale di mercato. Questi sono i tre momenti in cui si articola il modello sociale europeo. Questo potrebbe essere il sogno europeo, che rappresenta una variante di quello americano e dove c’è più equilibrio tra individuo e collettività.
Come vede il futuro dell’Italia?
Ho una convinzione positiva su questo paese che dal dopoguerra ha avuto momenti delicatissimi come durante gli anni del terrorismo senza che la coesione e le libertà democratiche siano venute meno. Quegli anni hanno rappresentato una sfida possente, costata la vita di molte persone, esemplificata dall’assassinio di uno di un leader che più di altri aveva pensato al futuro dell’Italia e alla partecipazione dei cittadini: Aldo Moro. O altri momenti gloriosi durante gli anni del boom economico e della ripresa dopo la guerra in cui l’Italia, ridotta in macerie, ha fatto passi da gigante divenendo potenza mondiale. Il futuro dell’Italia non è da sola ma nell’Europa. E il volontariato potrà rappresentare la peculiarità della nostra partecipazione e una visione della vita come assunzione di responsabilità. Queste potenzialità sono quelle che dovremmo sviluppare. Fra trent’anni non ci saranno più stati singoli e non ci sarà più nessun paese singolo nei G8. Invece l’Unione europea sarà uno dei protagonisti della storia mondiale. E paradossalmente l’Italia, forse avvantaggiata dal suo fragile sentimento di stato nazionale, potrà fare da battistrada nella realizzazione degli Stati Uniti d’Europa. Con un modello che io vedo simile a quello americano: un presidente eletto dai cittadini, una camera dei deputati che eleggeremo con un’unica legge e un consiglio europeo che diventa senato europeo con una funzione più decisiva sul bilancio e sull’ingresso di nuovi stati.