«La crisi dell'utopia» di Laterza
Platone o Aristofane?
Luciano Canfora dimostra le reciproche influenze tra il filosofo e il commediante. Cercando di convincere il lettore che la natura umana non è «immutabile»
I libri parlano fra loro, a volte: e non solo, valicando a ritroso gli scarti del tempo, quando un’idea, un intreccio, perfino un giro di parole che già qualcun altro aveva messo su carta decenni, o secoli, prima, tornano nella memoria di un autore, e gli tengono, per così dire, la penna fra le dita; può succedere anche che il dialogo si svolga nello stesso tempo, coi due autori che vanno per le strade di una stessa città, tremano al freddo degli stessi venti o si dissetano dal caldo delle stesse estati. È quanto Luciano Canfora, in questo suo recentissimo La crisi dell’utopia (Laterza, 2014), persuasivamente dimostra essere avvenuto, in qualche anno che non è possibile – né, a pensarci bene, nemmeno poi così importante – precisare, intorno alla seconda decade del IV secolo a. C., ad Atene. E gli autori erano Platone e Aristofane. Fu una delle ultime volte in cui la beffarda, terragna, sbrigliatissima inventiva del secondo scintillò fra i versi di una sua commedia, le Ecclesiazuse: come dire “quelle” (ed è già qui, nella desinenza femminile, la carica violenta del ribaltamento comico, giacché a nessuna donna, in Atene, sarebbe mai stato permesso) “che vanno all’assemblea” dei cittadini. Ma lo spunto non era suo: glielo aveva fornito Platone.
Aggirandosi entro il cantiere della sua chimerica polis ideale – per Canfora è plausibile che stesure intermedie, e magari parziali, del testo divenuto infine la Repubblica in 10 libri, siano state in circolazione prima della redazione canonica – il filosofo si lanciò in quello che, se non è il più avventato dei voli della sua fantasia di scrittore (ben più cupamente assonante alle sciagurate imprese eugenetiche naziste, suona a noi il progetto di accoppiamenti fra uomini e donne selezionati in base all’eccellenza del loro corpo, ma non dalle pulsioni telluriche del proprio desiderio, bensì dalla gelida attenzione di una commissione di “guardiani”), è certamente quello che più si attirò, nei secoli, la riprovazione allarmata, o disgustata, o sprezzante, dei benpensanti: la comunanza delle donne.
Ebbene, il primo a riderne, fu appunto Aristofane (nella foto); e non solo per imbastire tutta la sua commedia sulla ferrea, consequenziale applicazione del principio, in un’ottica però femminile: non le sole donne, sono in comune a più uomini, ma, appunto, anche gli uomini, a più donne. Anche le brutte. Anche le vecchie: che, “a termini di legge”, possono così pretendere, in tre, di essere soddisfatte da un aitante ragazzone, prima che questi approdi alle bramate grazie di una sua coetanea. Quello che più conta – e che Canfora comprova testi alla mano: a dispetto dei critici cui, negli ultimi due secoli, ripugna l’idea di una coincidenza di spunti fra il siderale filosofo delle idee e il sanguigno commediante – è che fra ciò che la protagonista della commedia, Prassagora, proclama come programma da attuare immediatamente dopo la presa del potere, e quanto viene discusso nell’attuale V libro della Repubblica, vi sono corrispondenze addirittura testuali, verbum de verbo. Il che rende, se possibile, la parafrasi comica qualitativamente ancor più elevata, sul piano letterario.
Ma ciò che costituisce l’aspetto più coinvolgente di questo libro, sul piano della discussione intellettuale, non è – non sembri paradosso l’affermarlo – nemmeno tutta l’ampia, documentatissima, vittoriosa prova d’alta scuola di fioretto che Canfora ingaggia contro i sostenitori delle tesi contrarie: dopo essere affiorato in qualche punto, nelle parti precedenti, come un fiume carsico di amarezza e lucido disincanto, è nella sesta ed ultima sezione del libro, che torna il tema dell’utopia politica. Di come essa si sia atteggiata, nei secoli (Giambulo di cui parla Diodoro Siculo; il filosofo stoico Blossio di Cuma che, dopo aver visto fallire ferocemente sotto i suoi occhi il progetto politico di Tiberio Gracco nel 133 a. C, andò a finire i suoi giorni fra gli Eliopoliti – i “Cittadini del Sole”, in quanto suoi adoratori, per Canfora: ma forse, più semplicemente, com’è anche nei Vangeli, in quanto da esso ugualmente illuminati – insorti nel regno di Pergamo; il Campanella della Città del Sole, e, naturalmente, Marx, Engels, la “prassi” bolscevica e poi stalinista, fino al suo “imprevisto, forse non meno significante” risultato attuale), e di come essa abbia ricevuto ogni volta, dalla brutalità della storia, sempre più impietose smentite.
Di fronte alle quali, tuttavia, Canfora riafferma – né poi tanto larvatamente sollecita in noi lettori – “il rifiuto di rassegnarsi alla rassicurante e paralizzante saggezza radicata nel convincimento, tipico del realismo classico, della immutabilità della natura umana”. Il dilemma, insomma, “è pur sempre: Platone o Aristofane”. Liberi pur sempre noi, (vivaddio!) di scegliere quale dei due più ci vada a genio.