Ricordo di un altro calcio
Memoria di Diba
Vent'anni fa si toglieva la vita Agostino Di Bartolomei, un campione indipendente, modello insuperato di uomo che non riesce a mettere in relazione il proprio talento con il mondo (sbagliato) che lo circonda
Mi porto avanti con le celebrazioni, lo faccio per non intasare il mio ricordo nel traffico di cronisti sportivi un po’ giovani che Agostino Di Bartolomei se l’andranno a rivedere su youtube prima di buttar giù tre cartelle. Gioco d’anticipo perché Ago (o Diba) l’ho amato da fuori squadra, egli assomigliando tanto al mio storico beniamino, Antonio “Totonno” Juliano. La comune origine, nelle estreme periferie di Roma e Napoli, il ruolo sul campo, i pregi e i difetti tecnici, quel modo di parlare all’indietro, come se le parole rientrassero in gola dopo essere state pronunciate, e soprattutto l’indole taciturna di chi, come si direbbe in quegli ambienti, “risponde coi fatti”. A che non è mai chiaro… E, sebbene fosse stata la vocazione della vita, il mondo del calcio avrà poco a che fare con il mondo di Agostino Di Bartolomei, a cominciare dal suo epilogo. Egli è stato il solo giocatore italiano di serie maggiore a essersi tolto la vita, tragedia accaduta il 30 maggio 1994 nella villa cilentana dove abitava con la famiglia. Anni dopo ci avrebbe provato anche Gianluca Pessotto, a cui verrà concessa una seconda vita da cui ripartire: «Non ho ricordi del volo, anzi di nessun momento di quella giornata, però il dolore che provavo prima, nell’anima, quello sì lo ricordo e lo ricordavo alla perfezione. Un buio tremendo, senza speranza. La solitudine più profonda che si possa immaginare». Chissà quella domenica sera cosa mai avrà pensato Agostino Di Bartolomei. D’altronde un gesto simile è come una saetta improvvisa, magari il giorno dopo non si sarebbe innescata. Quel lunedì, invece, bastò un attimo.
Appena sveglio, Ago si reca nel suo studio. Lì tiene ben custodite le sue armi, tre, regolarmente denunciate. Prende la Smith & Wesson, la pulisce, si affaccia al grande balcone di casa, si spara un colpo al cuore. Impressionante il richiamo letterario all’ultimo paragrafo di Fuoco fatuo, il breve romanzo che Pierre Drieu La Rochelle aveva dedicato all’amico scrittore Jacques Rigaut, scomparso nel 1929: «Ben puntellato, la testa contro una pila di cuscini, i piedi contro la spalliera del letto, la schiena inarcata. Petto in fuori, nudo, ben esposto. Il cuore, si sa dov’è. Una pistola, è solida, è d’acciaio. È una cosa. Aderire, finalmente, alle cose».
Il maneggiare quell’arma riavvicina il capitano della Roma alla materialità dell’esistenza e alle sue ansie. Un colpo che chiuda e risolva, perché una lettera non basterebbe a chiarire. Ci aveva provato, com’è rivelato ne L’ultima partita, il bel libro di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno, aveva scritto alla sua adorata Marisa per spiegarle quanto fosse difficile realizzare il progetto di un grande centro sportivo per ragazzi nel salernitano… «Il mio grande errore è stato quello di cercare di essere un indipendente da tutto, di non aver saputo dire no su nulla alla mia famiglia… Non c’è una lira, passata dalle mie mani, che non sia stata usata per la nostra famiglia: palestra, mansarda, terreni; non c’è nessuna ombra nel mio rapporto, nessun tradimento ma solo situazioni male interpretate. Ti adoro e adoro i nostri splendidi ragazzi, ma non vedo l’uscita dal tunnel.» Marisa Di Bartolomei ritroverà strappi di questa missiva mai consegnata nella tasca di una giacca di suo marito. Il tunnel di una indipendenza letale.
Frequentiamo un tempo non bello, in cui la violenza sopraffà ogni altra intenzione. Ormai il calcio rende un’immagine a tal punto verosimigliante della bruttura sociale da ergersi a simbolo di essa. Diba ha vissuto una delle residue epoche memorabili di quello sport. Non per caso, appena dieci anni lo separavano dalla generazione dei “messicani”. Delle bandiere senza discussioni: Bulgarelli, Juliano, Mazzola, Rivera, Riva. Non che il football di allora fosse esente da deviazioni: il sistema delle scommesse imperava, il doping era gravemente in uso, tanto che il decennio dei Settanta verrà falcidiato da malattie degenerative, la violenza negli stadi covava il proprio malefico riflusso al tramonto della stagione politica. Ecco, Agostino incarna il calciatore di mezzo. L’Italia post-bellica chiude la sua breve epopea il 21 giugno del 1970, a finale perduta; la ricostruzione comincia da lì, aspettando una nuova genia di talenti.
Quando “vendichiamo” l’occupazione tedesca con il 4-3 (nella foto Riva e Rivera a Città del Messico), Diba gioca negli allievi, ha quindici anni, una personalità assai matura ma uno stile antico, forse troppo. Già nel 1974 il calcio è diventato tutt’altra cosa. Il modulo all’olandese prescrive marcatura a zona, pressing asfissiante e un continuo giro di ruoli. In Italia lo interpreterà con molto anticipo il Napoli di Luis Vinicio, dando spettacolo e segnando a raffica. Ecco, per quel tipo di gioco, Ago sembra tagliato fuori. Quella infatti era la tendenza senza ritorno e lui non può sopperire, con il puro tocco di palla, alle proprie carenze atletiche. E però il tiro potente e la precisione del lancio convincono Nils Liedholm a non rinunciarvi. Così, per la combinazione mentale di due elementi di classe innata, la figurina di Agostino Di Bartolomei diviene centrale nella formazione della Roma, anomalia di un libero che non corre perché di nascosto fa il regista arretrato, imposta il gioco e va a segnare. Seguiranno lo scudetto, tre coppe Italia, e una finale di Coppa Campioni persa il 30 maggio del 1984, dieci anni esatti prima di togliersi la vita, data immensamente simbolica in ricordo di una ferita mai rimarginata.
Avevo incontrato Agostino Di Bartolomei nel mese di ottobre del 1983. Ero andato a Trigoria per chiedere al capitano della Roma una firma di adesione, a nome di tutta la squadra, a una manifestazione che andavo organizzando per l’anniversario della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Sedemmo in un salottino, gli spiegai il perché dell’idea di coinvolgere per la prima volta il calcio italiano su un tema così lontano. Lui sapeva tutto, di Amnesty, della tortura, della pena di morte. Non era loquace, è vero, ma aveva il dono di esprimersi con gli occhi. Mi disse che secondo lui era un’iniziativa importantissima, io ero appena un ragazzo e mi sentii lusingato dalla sua attenzione. Il calcio del mio cuore era popolato di protagonisti del suo livello umano.
Non si dovrebbe che tacere, dinanzi al suicidio di un essere umano. C’è poco da interpretare e nulla da capire. Ci colpisce quello di un atleta, che come tale impersona la forza, la certezza in sé. E come tanti altri, mi sono portato dentro il dolore di una perdita mitica, benché non fosse questo, benché fosse un giovane ex calciatore nemmeno quarantenne. Insomma era da molto che desideravo dedicare qualcosa ad Agostino, che ad esempio pensavo di trascrivere i versi abbaglianti che un caro amico e grande poeta, Fernando Acitelli, aveva composto per questo Campione italiano che non c’è più:
In un’ora immobile,
nel giorno di festa
che più ci aggredisce,
sotto un porticato salesiano,
più novecentesco che altrove,
Agostino, credimi, chi ha ragione
è Beckett e Ionesco.
E il tuo cuore immenso
che alle risse non s’adegua,
nobile si congeda dalla vita.
Ma l’urlo rimane ancora nella Sud!
Basta porre orecchie e ascoltare
il bene a te accordato da fedayn e boys
e il canto del commando; o anche
dal tifoso solitario che più di tutti in te sperava
quando dal limite una tua “bomba” era l’immenso
e il sogno.
Per Agostino Di Bartolomei, nel rimpianto di un tempo migliore.