Uno spettacolo di Maurizio Scaparro
Maschera Ranieri
Massimo Ranieri sovrappone il suo talento alle intuizioni poetiche di Raffaele Viviani. Ne viene fuori un ritratto antico e struggente di quel che siamo stati: l'Italia
Agli appassionati di Massimo Ranieri (sono tanti) devo questa nota da quando l’estate scorsa andai a vedere un (di lui Ranieri) insopportabile Riccardo III a Ostia Antica. E lo dissi e ne spiegai i motivi senza riguardo per i miti (Ranieri, Shakespeare e Riccardo). Ebbene, ieri, normale calda domenica pomeriggio di metà maggio a Roma, sono stato a vedere Viviani varietà al Teatro Olimpico. E me la sono goduta. Lo spettacolo ha qualche limite (che cercherò di dire via via) ma me la sono goduta eccome. Vi spiego.
Si immagina che Raffaele Viviani stia viaggiando su un transatlantico alla volta dell’America Latina e che, con la sua compagnia più qualche avventizio occasionale, debba organizzare una festa per gli ospiti della nave in occasione del passaggio dell’equatore. Nel primo tempo dello spettacolo, la compagnia prova lo spettacolo, nel secondo poi lo mette in scena: la struttura drammaturgica (di Giuliano Longone) è classica, semplice, quasi banale (primo limite). Ma la suggestione oceanica è bella, perfettamente sottolineata dalla bella scena di Lorenzo Cutùli: credo che in essa ci sia lo zampino (significativo) del regista dello spettacolo, Maurizio Scaparro il quale, oltre al resto, ha confezionato suggestioni e immagini che restano nella memoria. Per il resto, fatte salve poche parole spese nel primo tempo per dare corpo al rapporto tra il direttore (Viviani) e i suoi attori (qui brillano soprattutto Ernesto Lama e Mario Zinno), ci sono solo i versi e le musiche di Raffaele Viviani. Ossia: un paio di poesie (bellissime, come quella sul mare che apre e chiude il primo tempo) e tantissime canzoni, alcune stra-note (da Bammenella a Tarantella segreta, le varie guapparie e zingarate e feste di Piedigrotta) altre più rare ma non meno affascinanti. Per chi non conosce a menadito Viviani, si tratta di un’occasione da non perdere: perché dietro al teatro c’è la cultura popolare, c’è la poesia del vicolo e della miseria che il grande autore sapeva disporre alla perfezione nei suoi tableaux vivants.
E in questo materiale, spingendo indietro elegantemente il suo borsalino floscio, Massimo Ranieri si muove a proprio agio, costruendo qualche piccolo capolavoro: come il guappo idiota Salvatore costretto a sfregiare la donna che lo ha mollato (ma perché poi far fare un personaggio gemello al povero Lama?) o come lo Scugnizzo di Giovanni Capurro e Francesco Buongiovanni. Fa impressione annotare la naturalezza con la quale Ranieri (ma anche gli altri della compagnia, tutti) dispone sulla scena il patrimonio della cultura napoletana. Tanto che non stonano né gli elogi alla mariuoleria né il populismo (che oggi viceversa sarebbe pericolosissimo) dei poveri anti-sistema. Perché Ranieri non è più un attore ma un mito che trasfigura la realtà: una metafora vivente che attraversa i tempi e mette la sua faccia (la sua maschera, oramai, come un Totò, un Nino Taranto, un Sergio Bruni) al servizio di un popolo. Che non è solo quello napoletano, beninteso, ma quello italiano. Perché il teatro (specie quello napoletano) è la quintessenza dell’Italia, non solo della città di Napoli.
Una volta Beniamino Maggio mi raccontò d’aver assistito a una rentrée di Viviani a Napoli, quando l’attore ormai vecchio chiamò in teatro amici vecchi e giovani per un’occasione che egli stesso disse specialissima. «S’aprì il sipario – mi raccontò Beniamino – e entrò in scena un ragazzino che interpretava ‘O scugnizzo. Don Raffaele vuole presentarci il debutto sulle scene del figliolo, pensammo tutti… e invece no! Alla fine della macchietta che tutti avevamo creduta essere stata interpretata da un giovinetto, in realtà era stata cantata e recitata dal vecchio Viviani. E quella era il miracolo: che Viviani tornasse a recitare ‘O scugnizzo!». Allo stesso modo, più d’una volta qui in Viviani varietà si stenta a riconoscere l’uscita in scena di Massimo Ranieri: dietro di lui si immagina qualcun altro, magari qualche ragazzino vispo e malizioso. Un po’ perché Ranieri sa trasfigurare se stesso e la sua voce in qualcosa di sempre nuovo, un po’ perché egli generosamente lascia assai spazio al resto della compagnia.
Ieri, normale domenica di caldo maggio a Roma, il Teatro Olimpico era pieno, di fatto esaurito. E entusiasta: con le ragazzine a filmare lo spettacolo con i loro smartphone. Nel senso che Massimo Ranieri è un mito che va oltre se stesso, oltre la propria stessa storia. Ed è lì negli anfratti della sua voce, delle sue memorie (chissà quante signore avranno aspettato di sentirlo intonare Rose rosse per te senza nemmeno rimanere deluse quando si sono ritrovate senza rose rosse in mano…) che Massimo Ranieri restituisce ogni volta il suo mito: che è immaginario popolare, canzone e romanticheria, sogno e miseria, Raffaele Viviani e Marechiaro. Un pezzo d’Italia, insomma, completo e inclusivo come pochi.