Un racconto tra Africa e Sudamerica
Italo e il Paranà
«Il giorno in cui fu deviato il Paranà, fu l’ultimo di una lunga serie di giornate piatte e uniformi e cupe»: il racconto inedito dell'utopia di un ingegnere italiano
Italo Longhi era nato nel 1938 in Versilia. Entrambi i genitori morirono sotto un bombardamento e Italo passò l’infanzia in un collegio di suore. Forse furono questi trascorsi a far sì che non avesse senso della famiglia. Questo, almeno, è ciò che sosteneva Elena. Italo la sposò e visse con lei per cinquant’anni, fino alla morte, crebbe due figlie e diversi nipoti. Ciò dovrebbe smentirla.
Ma Elena a suo modo aveva ragione. La famiglia non era in cima ai pensieri di Italo Longhi. Non aveva molta istruzione, e per certe cose questo è un bene; e come molti uomini grezzi e di spessore, si era costruito con l’esperienza la propria personale scala di valori; e visto il tipo d’uomo che era, questa aveva un peso importante nel suo agire e nel suo pensare. E il fatto che in cima a questa scala così determinante non vi fosse la famiglia, non è cosa che una donna come Elena potesse perdonare.
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Il giorno in cui fu deviato il Paranà, fu l’ultimo di una lunga serie di giornate piatte e uniformi e cupe, e non vi fu nessuna speciale eccitazione nel suo inizio né alcuna peculiare gioia nella sua conclusione. Fu una giornata che cominciò molto presto. Già prima che sorgesse il sole, sul lato del fiume dov’erano state accumulate le pietre cominciarono a muoversi grandi macchine gialle, e a spingere i massi e a caricarli.
Da giorni la portata del fiume scendeva. La sezione di controllo a monte della strozzatura misurava poco meno di quattordicimila metri cubi al secondo. Il Paranà collaborava. Non si poteva chiedere di più a un fiume di quel rango, al di sotto non sarebbe mai sceso. Il fatto che non fosse mai stato deviato prima un corso d’acqua con la metà di tale portata, non si poteva certo imputarlo al Paranà. Era una scelta degli uomini.
Poi c’erano i conti. I calcoli degli ingegneri che assicuravano che, col sistema che avevano progettato, sotto i quattordicimila metri cubi al secondo il fiume era deviabile. Sui calcoli degli ingegneri, Italo aveva le sue personali convinzioni. Come molte persone che, pur partendo da un basso livello d’istruzione, hanno raggiunto nel lavoro una posizione preminente, non nutriva una fiducia illimitata nelle previsioni di chi ha studiato. Ma dava loro delle possibilità, e si aspettava di essere contraccambiato. Questo era tutto ciò che chiedeva ai calcoli degli ingegneri.
Dunque, prima ancora che sorgesse il sole vennero passate in rassegna le squadre. C’era nebbia nell’aria ancora buia e le lampade dei fari che su entrambe le sponde del fiume incorniciavano la strozzatura, avevano attorno una corona sfocata e i fasci di luce penetravano poco a fondo nell’oscurità. Sarebbe stato bene aspettare che la nebbia si alzasse. Ma nessuno avrebbe potuto prevedere quanto ci avrebbe messo. E c’era bisogno di tutte le ore che la giornata avrebbe offerto, dunque non si poteva indugiare troppo.
Le due lingue di roccia avevano stretto il fiume fin dove era possibile. Più in là, non c’era modo di andare. Penetravano per oltre un chilometro ben dentro l’alveo, ma c’era ancora, in mezzo, un largo tratto dove il fiume strozzato spingeva contro le sponde, con una forza che faceva schizzare via come bilie i massi che foderavano la scogliera. Da una sponda e dall’altra, due treni di grossi dumper non facevano che caricare roccia e scaricarla sulle sponde del canale, per rimpiazzare i massi erosi via dal fiume. Chiuso in quell’imbuto, il fiume levigava la scogliera asportando ad uno ad uno i massi che gli uomini rimpiazzavano.
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Prima di Yacyreta, la grande diga metà argentina metà boliviana costruita sul basso corso del Paranà, Italo aveva costruito molte altre dighe e deviato molti altri fiumi. E diversi altri ne avrebbe deviati negli anni a seguire. Molti di loro erano in Sud America, ma alcuni anche in Africa; e tra quelli che seguirono il Paranà, molti furono soprattutto in Africa.
Però nel sangue di Italo Longhi il Sud America aveva disciolto una sostanza speciale. Per questo parlava così bene il castigliano, e anche quando si esprimeva nella sua lingua diceva ‘taller’ per officina e ‘desvio’ per deviazione; e parecchi altri vocaboli spagnoli affioravano qua e là nel suo toscano torbido e contaminato. Gli piacevano i combattimenti di galli e gli riusciva naturale ballare il tango. Era un gran ballerino di tango e di altre danze che molte donne sudamericane generosamente gli insegnarono.
Questo dei galli e del tango fu uno dei terreni di scontro tra Italo ed Elena. Poco dopo il matrimonio ebbero due figlie, che per Elena erano il centro della vita. Nella sua casa, Elena coltivava la famiglia, i valori famigliari. Ma nei cantieri di gioventù, il Paute e il Chivor, dopo essere rientrato a casa la sera e dopo aver cenato, spesso Italo trovava una scusa per uscire. Alcune ore dopo Elena lo ripescava dietro un’arena di galli, in un saloon, che provava passi di tango con qualcuna di quelle signore.
Italo era un bell’uomo, non alto ma ben piantato sulle spalle proporzionate, le gambe forti, un naso sottile leggermente adunco, con le narici dalle pinne quasi trasparenti e mobilissime, che le donne trovavano molto sensuali, zigomi alti e occhi sottili color tabacco, dallo sguardo caldo e malandrino. Anche Elena era una bella donna, una mora tinta bionda, con gli occhi fondi neri e vivaci, modi bruschi e una lingua tagliente. Ma le scenate che piantò nei primi tempi, non ebbero effetto su Italo. Malgrado molte liti e accuse e minacce, non riuscì a trattenerlo in casa la notte. Tuttavia, non lo lasciò. Lui, d’altra parte, non pensò mai di non tornare, dopo. Ma non era questa la ragione per cui Elena sosteneva che Italo fosse privo di senso della famiglia.
Il Paute e il Chivor erano due dighe andine. Nei villaggi vicini ai cantieri, la vita notturna si concentrava attorno all’arena di galli. Italo non scommetteva, o scommetteva poco. Non era l’azzardo che cercava. Ma quell’eccitazione, e quell’odore di morte. L’odore di polvere dell’arena e quello di sudore di tanti volti concitati, le banconote che passavano di mano in mano e quel senso del limite, presente ovunque – nella lotta degli animali, nell’agitazione degli uomini armati di coltello, negli sguardi affilati delle donne – un limite sottile, che era lì, bastava un niente a varcarlo, ma persisteva. Ed era generato dal fatto che tutto ruotava attorno a una lotta semplice, ma mortale; e col tango, era lo stesso.
Ma se la vita notturna era interessante, al Paute e al Chivor, durante il giorno il lavoro era duro. In quella parte della cordigliera il suolo è ‘malo’ e tradisce facilmente. Era stato un inverno piovoso. Le piogge insistenti avevano rammollito il terreno e le pendici della montagna cedevano. Le piste che collegavano il cantiere alla camionabile e quelle che salivano sul versante ovest, annodandosi a tornanti stretti sulla parete di roccia, erano spesso interrotte da frane. Alcuni mezzi erano andati perduti ed anche alcune vite umane. Ma quando quella notte di gennaio venne giù l’intera parete, Italo fu l’unico che seppe prevederlo.
Che vi fossero rumori, su in alto, era normale. Che di quando in quando si udisse uno schianto e precipitasse a valle qualche pietra, accadeva tutte le notti. Con l’oscurità non potevano certo vedersi, dal basso, le fratture che si aprivano sul fianco della montagna e via via si allargavano in cima alla lama di terra che stava per distaccarsi; e quelle non fanno rumore. Dunque non si sa proprio che cosa lo avvertì, poco dopo le due del mattino. E perché, lasciata l’arena e il saloon, tornò in cantiere e dopo aver girato in tondo per mezz’ora, fiutando l’aria e tendendo le orecchie, nervoso come un animale che sente il pericolo, decise di fermare il turno e ritirò tutti i suoi operai, giusto in tempo perché non li seppellisse la frana.
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La squadra più numerosa era quella che si preparava attorno ai nastri. I nastri erano un prodotto della tecnologia industriale americana. Chilometri di carpenterie metalliche e di tralicci e di tappeti in neoprene larghi due metri, capaci di sparare nel fiume fino a dieci massi da due tonnellate in un secondo. A detta degli ingegneri questo era il minimo che avrebbe consentito di strozzare il fiume. Altri ingegneri di quella nota ditta americana avevano lavorato per tre anni per progettare e poi montare quella fantastica selva di tralicci d’acciaio, il cui solo scopo era assicurare che dieci massi da due tonnellate fossero sparati nel fiume ogni secondo, senza guasti né interruzioni, per un giorno intero.
Mentre i tecnici americani costruivano e montavano i nastri, Italo cavava roccia e l’ammucchiava in riva al fiume. Tutte le squadre che ora si affollavano attorno alle tramogge, per i dodici mesi precedenti erano state impegnate a preparare le munizioni. Cavavano e accumulavano massi. Come tante formiche previdenti, i grossi dumper da settanta tonnellate avevano fatto su e giù tra la cava e il fiume, caricando blocchi di roccia in collina e trasportandoli fin sulla riva, per tutta la stagione.
La nebbia non si era ancora diradata del tutto. Ma quando ci fu abbastanza luce per vedere il fiume, la superficie tra i due pennelli della strozzatura era gonfia e grigia e l’acqua filava veloce. Cominciarono a tirar dentro i massi. Italo dispose le squadre in modo che i dumper arrivassero a serie di sedici a scaricare nelle tramogge, e distribuì i compiti e le tabelle di carico agli uomini.
I massi cadevano nelle tramogge e talvolta, urtando tra loro o contro il taglio delle lamiere, sprigionavano scintille ben visibili nella luce ancora incerta del primo mattino. Poi venivano ingoiati dal sistema di tramogge e di nastri, che li allineavano e li convogliavano ai tripper che li proiettavano in mezzo al fiume.
Erano massi tra le due e le tre tonnellate, i più grossi che i nastri potessero trasportare. Ma il Paranà li inghiottiva come confetti e la corrente li trascinava per parecchie centinaia di metri e li disperdeva nell’ansa del fiume che si allargava oltre la strozzatura.
I dumper incolonnati continuavano a fare la spola tra le sedici tramogge e i mucchi di roccia, dove le grandi pale Caterpillar li caricavano. Il flusso appariva semplice e regolare, ma non era affatto semplice mantenere quella regolarità. Decine di uomini agitati correvano da un capo all’altro della colonna, comunicando via radio, urlando e bestemmiando, e chiamando le squadre di meccanici a riparare questo o quel guasto e spingendo gli operatori delle pale e gli autisti dei dumper, sostituendo e punendo quelli che commettevano errori.
Il risultato di questa agitazione fu che il flusso si mantenne tranquillo e regolare per le prime due ore, ma il fiume continuò a ingoiare i massi e a trascinarli a valle senza neanche sentirli. A monte, il livello del Paranà non si alzava e la corrente filava come prima, liscia e imperturbabile, tra i due pennelli della strozzatura.
A mezzogiorno il sole uscì dalla coltre di nubi e cominciò a far caldo. I nastri vomitavano roccia da oltre sei ore e il fiume pareva non accorgersene nemmeno.
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Dopo il Paranà, Italo venne in Africa e fu lì che lo conobbi io. Venne prima in Marocco, poi in Guinea, poi in Uganda, poi in Nigeria. In tutti e quattro i luoghi, si trattava di dighe. Quella del Marocco non era male, come diga; ma nessuna di loro poteva stare al pari con Yacyreta e nessun fiume africano che gli toccò deviare poté eguagliare il Paranà.
Elena lo accompagnò solo in Marocco. Quello era un posto in cui una donna come lei poteva vivere. Aveva una bella casa, nel campo, e un giardino curato, e della servitù. Poté visitare il Paese. Poté esplorare le quattro città imperiali e vedere Tangeri e la fortezza portoghese di Essaouira e le due enclave spagnole – Ceuta e Melilla – e guidare attraverso l’Altante fino a Erfhoud e Ouerzazath e Zagorah e Mhamid, e vedere il cartello con su scritto: Toumbouctou – quaranta giorni di cammello, e annusare l’aria del deserto.
Tutte queste cose le fece con Italo. Faceva del turismo e si era molto calmato. Pernottava in alberghi confortevoli e cenava in buoni ristoranti. In Marocco, non frequentava arene di galli né niente del genere e smise di ballare il tango o qualunque altra danza. Del Sud America aveva conservato una cosa sola: l’abitudine di grigliare la carne. Per tutta la durata del cantiere, quasi ogni domenica m’invitò a pranzo. Lui curava il fuoco e la griglia, ci teneva a farlo di persona perché sapeva farlo molto bene.
Italo Longhi in Marocco era un uomo molto serio e rispettato e fece come al solito un eccellente lavoro sulla diga di M’jaara. Inoltre, invecchiava; aveva ormai passato la cinquantina. Tutto questo avrebbe dovuto confortare Elena. Ma, quando terminò il Marocco, non si fidava ancora di lui. Continuava a sostenere che gli mancava senso famigliare.
Elena si ritirò nella casa di famiglia, in Toscana, con le due figlie ormai sposate e i nipoti che cominciavano a venire al mondo. Italo non trovò lavoro in Italia. Perlomeno, non un lavoro di sua soddisfazione, né di apporto economico adeguato alle esigenze di lei. Quindi ripartì. Sapevano entrambi che la vera ragione per cui lo fece, non era il fatto che non vi fosse, in Italia, il lavoro che faceva per lui.
Quando lo rincontrai, in Guinea, aveva ricominciato a ballare. Era meno rispettabile che in Marocco, e tutti i suoi amici erano meno rispettabili e lui era molto più vivo. Non c’erano, laggiù, arene di galli, né donne che ballassero il tango. C’erano maquis di tettoie di paglia, villaggi di capanne, mercatini miserrimi e colorati; e poi c’era un fiume meno civile che in Marocco, e terra e roccia e montagne, tutte molto meno civili che in Marocco o in Toscana. E Italo, in modo diverso, più senile, ricominciò a ficcarsi in tutte queste cose.
Certo s’era lasciato alle spalle, oltre oceano, quella curiosità che un tempo aveva dovuto spingerlo. Ma cercava ancora qualcosa nei mercatini sterrati di tettoie di frasche, tra i banchetti di frutta e le mami che bollono in pentoloni anneriti la farina di toh. Qualcosa di povero e primitivo, che lo riportasse da quelle parti, nei dintorni di quel limite che in gioventù aveva esplorato.
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Fu soltanto nel pomeriggio, dopo quasi nove ore, che il Paranà cominciò mostrare qualche segno di affaticamento. Parve ad Italo che finalmente accusasse qualcosa delle centinaia di migliaia di tonnellate di roccia che gli erano state scaricate in corpo. La corrente tra i due pennelli della strozzatura sembrava meno liscia, la superficie dell’acqua appena più increspata.
Nella sezione di controllo, a monte, dove i topografi leggevano il livello ogni mezz’ora e lo comunicavano via radio a Italo, la quota cominciò impercettibilmente a muoversi. Pareva si fosse alzata di mezzo centimetro. Mezz’ora dopo era ancora un centimetro più alta e dopo un’altra mezz’ora era salita di tre centimetri, e Italo comprese che era fatta.
Ci vollero ancora undici ore perché il livello, a monte, raggiungesse la quota prefissata; e poi ancora tre giorni durante i quali i dumper e i nastri continuarono a sversare roccia e terra nel fiume indebolito. I due pennelli cominciarono a muoversi, stringendo la sezione del fiume. Il Paranà entrò nel canale di cemento che era stato costruito per lui. I due pennelli si congiunsero e Italo poté passare da una sponda all’altra camminando sul cofferdam che attraversava il fiume.
Perca, Dicembre 2012