Storia di un patrimonio perduto/1
Il mare di Milano
Non serve tornare indietro ai romani e a Leonardo da Vinci per capire l'importanza urbanistica dei Navigli. E per capire che il loro recupero ha una lunga (e ben motivata) storia
Negli ultimi tempi si è parlato molto a Milano dell’idea di riaprire i Navigli: sono stati fatti progetti dettagliati, analizzati costi e valutati tempi di realizzazione … Per la verità il dibattito è stato recentemente oscurato dai problemi relativi ad EXPO 2015 che – se inizialmente hanno riguardato l’ipotesi della realizzazione di un nuovo, controverso canale, o via d’acqua – in seguito sono degenerati al livello di gravi episodi di corruzione, sui quali la magistratura è attualmente al lavoro. A molti (e tra questi non mancano i milanesi) restituire vita al sistema dei Navigli può sembrare un progetto bislacco, un poco retrò; oppure una iniziativa di portata modesta: in fondo si tratterebbe di far passare nuovamente l’acqua in un canale abbandonato … Con questo articolo mi propongo di dimostrare che questi sono atteggiamenti ingiusti (il che – ben inteso – non significa necessariamente che io sia fautore, o meno, dell’idea); in un articolo successivo prenderò in esame le principali proposte avanzate.
In che consiste l’ingiustizia? I Navigli sono il tassello di una vicenda straordinaria – nella storia millenaria dei rapporti tra l’uomo e l’acqua – in un ambiente naturale straordinario. Una iperbole? Può darsi… Vediamo allora la questione da vicino.
Innanzitutto l’ambiente. Non tutti sanno che la pianura lombarda, dopo che l’Adriatico si fu ritirato, restò un mondo d’acqua, una palude estesa sino al limitare dell’arco alpino: un fenomeno macroscopico, rispetto al quale la laguna veneta impallidisce, e non è per caso che i primi legionari romani dedicarono alla dea Mefite quei luoghi inospitali e maleodoranti. La ragione è presto spiegata: i detriti lasciati dal mare, dal Po e dai suoi affluenti hanno con il tempo creato uno strato impermeabile. A sua volta la regione montagnosa a Nord agisce come un contenitore nel quale – con la pioggia, o quando si sciolgono le nevi – si raccoglie una enorme quantità d’acqua. Essa penetra nel sottosuolo fintanto che questo è in grado di assorbirla; quando incontra lo strato impermeabile è costretta a risalire verso la superficie. Si formano in tal modo i fontanili, o risorgive: e l’alta e bassa pianura lombarda sono separate tra loro da una fascia che taglia trasversalmente la regione da Ovest a Est (la cosiddetta linea delle risorgive): un fenomeno unico, che ha piegato – per così dire – l’intera storia della regione. Di quel paesaggio spettrale restano numerosi corsi d’acqua e laghi; qualcuno sopravvive soltanto nei toponimi, come l’Isola Fulcheria dello scomparso lago Gerundo. La palude era costellata da modesti rilievi; su uno di questi – alto poco più di 4 mt sul livello delle acque circostanti – i Celti Insubri fondarono Milano. Si spiega così una apparente anomalia: come mai non fu scelto un sito sulla riva di un fiume, bensì in mezzo a 2 fiumi (il Ticino ad Ovest, l’Adda ad Est)? Semplicemente perché di acqua ve ne era in abbondanza tutto attorno…
Vengo al secondo ramo dell’iperbole. In questo ambiente difficilissimo ha inizio una vera e propria epopea millenaria, senz’altro paragonabile con la sfida portata dagli olandesi al mare. Si inizia a drenare l’acqua e a convogliarla; si liberano terreni per le coltivazioni; con i Romani si fa strada una visione che potremmo dire sistemico/reticolare: una volta bonificata – almeno in buona parte – la palude, anche per mezzo dell’istituto della centuriazione, Milano viene a trovarsi al centro di una pianura, e perciò (paradossalmente!) occorre portarvi l’acqua. Vengono deviati i fiumi Nirone e Seveso sia per alimentare il fossato a difesa, che per motivi alimentari. L’acqua però non può ristagnare, e quindi deve essere convogliata verso Sud. Si scava un canale (il primo!), chiamato Vettabbia da vectabilis (capace di trasportare): sfocia nel Lambro, e quindi conduce al Po in direzione del mare: Milano è così “messa in rete” con il sistema di traffici “globale” dell’epoca. Non basta: secondo il tipico modo di pensare dei Romani, nulla deve andare perduto, ed il Lamber Merdarius si incarica di portare nei campi un liquido arricchito dagli escrementi umani di una vasta popolazione.
Dopo la desolazione seguita alla caduta dell’impero romano la sfida riprende: i protagonisti, almeno all’inizio, sono i cistercensi e gli umiliati delle abbazie di Chiaravalle, Morimondo e Viboldone; la rete di canali si infittisce (oggi supera i 40.000 km …), nasce un’agricoltura eccezionalmente prospera e l’acqua – finalmente addomesticata – non serve soltanto ad irrigare; ma anche a trasportare, a muovere le pale di un esercito di mulini, oltre che, naturalmente, a dissetare e all’igiene personale. Esigenze militari portano da un lato alla realizzazione della cosiddetta “fossa interna”, il cui percorso segue le odierne vie Fatebenefratelli, Senato, San Damiano, Visconti di Modrone, Francesco Sforza, Santa Sofia, Molino delle Armi, De Amicis, Carducci, Piazza Castello e via Pontaccio; dall’altro sospingono verso un progetto assai più impegnativo: il raccordo tra Milano ed il Ticino. Ha così origine il Naviglio Grande, lungo il quale transiteranno per secoli i barconi provenienti dal fondo Toce, carichi dei marmi destinati alla Veneranda fabbrica del Duomo. Milano è meravigliosa: tale almeno è l’opinione di un autore il cui nome è di per sé un programma (Bonvesin de la Riva, De Magnalibus Mediolani).
Il tema della città e dell’acqua è oggetto di trattazione solo in apparenza tecnico-urbanistica, ma in realtà filosofica, se non addirittura visionaria, nelle opere di artisti eccezionali come il Filarete e soprattutto Leonardo. Il primo disegna una città ideale, non a caso chiamata Sforzinda, dove l’acqua serve anche a garantire l’igiene del nuovo Ospedale maggiore; il secondo “vede” i canali come un sistema reticolare, pensa ad una nuova opera che congiunga la città all’Adda verso Est, dove si aprono sfide tecniche apparentemente insormontabili, progetta conche e macchine idrauliche febbrilmente documentate nel Codice Atlantico. Occorrerà tuttavia più di un secolo perché il Naviglio di Paderno (della Martesana) venga ultimato tra mille difficoltà… I tempi sono cambiati irreversibilmente, l’amministrazione spagnola è fiacca e indolente, e se ne ha la prova con l’esito di una nuova impresa: il Naviglio Pavese, che dovrebbe collegare Milano a Pavia. Il governatore conte di Fuentes dà inizio ai lavori: grandi feste, si scava per due miglia; poi ci si ferma, si erige un monumento celebrativo in onore dello stesso e tutto finisce lì. Se ne riparlerà con gli Austriaci.
L’ultima grande opera a completamento del sistema – il canale Villoresi – è concepita in tutt’altro periodo, e soltanto per scopi irrigui. Siamo verso la fine dell’Ottocento, nel periodo cosiddetto della “gelsomania” e della diffusione dei setifici. Si aggiunge il cotone, la cui manifattura soprattutto nel distretto di Gallarate assume una vera e propria dimensione industriale. La storia dei Navigli è però avviata da tempo verso una conclusione malinconica. Gli uomini hanno trovato strade differenti dalle vie d’acqua, e i mulini e le “sciostre” (magazzini rivieraschi) non servono più a nulla. Gli argini si deteriorano, e i fiumi ogni tanto si ribellano: all’inizio del Novecento l’Olona sommerge interi quartieri cittadini. Già nel 1857 il governo austriaco aveva deciso il ricoprimento dello storico laghetto di S. Stefano (l’odorato dell’imperatore in visita era stato offeso dal lezzo delle acque provenienti dall’Ospedale Maggiore); nel 1929 viene deciso di riempire la fossa interna e nel 1970 sia la Martesana che il Redefossi (altra storica via d’acqua) sono, come si dice in gergo, “tombinati”. Il Naviglio scivola fuori dal paesaggio urbano e dalla memoria collettiva; la sua caricatura sopravvive come malinconico sfondo alla movida.
1. Continua