“La rivelazione greca” di Simone Weil
Il gancio mistico
Corpo a corpo con Dio sul ring del pensiero greco. Un esercizio di “pugilato trascendentale” in 5 lezioni, così appare il testo della filosofa francese che si misura con l'oggetto sommo del suo amore. Partendo dall'Iliade e attraversando Platone e i Pitagorici...
Adelphi pubblica, sotto il nome significativo di La rivelazione greca (489 pagine, 28 euro), gli scritti ordinati sul pensiero antico della filosofa Simone Weil. L’idea essenziale che attraversa queste pagine vibranti, mai stanche di stupire e di scuotere il lettore, è che la grecità, nelle sue forme poetiche, scientifiche e filosofiche più alte, coincide non già con una semplice anticipazione della visione cristiana, ma con la verità in germe, nell’hic et nunc del suo Dire originario, la quale affronta i temi peculiari dell’onestà dell’uomo come attributo anelante al Dio rivelato.
Lezione 1, Giacobbe – Simone Weil è una strenua pugilessa (“pesi mistici”) che gareggia con Dio a mani nude, nel ring della sua esistenza e dei suoi scritti, con la temerarietà d’un Giacobbe sul filo del fiume e la tecnica evasiva di Cassius Clay. Ne L’ombra e la grazia, testo fondamentale per comprendere posizioni teologiche al limite dell’eresia, ella sostiene che bisogna “discreare” la Creazione: da vera donna innamorata, Weil non può che instaurare una lotta biblica all’ultimo sangue con l’oggetto del suo amore: Dio.
Lezione 2, Poema della forza – La rivelazione greca inizia con riflessioni illuminanti sul carattere essenziale dell’Iliade, della sua acme di sofferenza, del suo fogliame d’umanità. «Il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’Iliade è la forza. La forza adoperata dagli uomini, la forza che sottomette gli uomini, la forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae». Un destino crudele guida ciecamente le azioni dei vincitori e dei vinti, gli uni motivo di sventura per gli altri. In questa straordinaria equanimità di dolore disgraziato, l’amore e la giustizia consistono nel riconoscere l’imperio della forza, e non rispettarlo. «L’uomo che non è protetto dall’armatura di una menzogna non può patire la forza senza esserne colpito fino all’anima. La grazia può impedire che questo colpo lo corrompa, ma non può impedire la ferita».
Lezione 3, lo Svaligiaborse – Commentando alcuni testi di Platone (in particolare, il Filebo, il Gorgia e il Simposio) e la filosofia pitagorica, Simone Weil cerca di trarre dal cappello della speculazione greca gli esiti fondamentali dell’essere. La riflessione deborda su una pronta risposta alla celebre domanda leibniziana “Perché c’è l’ente, e non piuttosto il niente?”. «Al termine di tali meditazioni si giunge a una visione estremamente semplice dell’Universo. Dio ha creato: questo non vuol dire che egli abbia prodotto qualcosa fuori di sé, ma che si è ritratto, consentendo a una parte dell’essere di essere altro da Dio. A questa rinuncia divina corrisponde la rinuncia da parte della creazione, vale a dire l’obbedienza. L’Universo intero non è altro che una massa compatta di obbedienza. Questa massa compatta è disseminata di punti luminosi. Ciascuno di questi punti è la parte soprannaturale dell’anima di una creatura dotata di ragione che ama Dio e che acconsente a obbedire. Il resto dell’anima è chiuso nella massa compatta. Gli esseri dotati di ragione che non amano Dio sono soltanto frammenti della massa compatta e oscura. Anch’essi sono interamente obbedienza, ma solo alla stregua di una pietra che cade. Anche la loro anima è materia, materia psichica, soggetta a un movimento tanto rigoroso quanto quello della gravità. Anche la loro credenza nel proprio libero arbitrio, le illusioni del loro orgoglio, le loro sfide, le loro rivolte sono semplicemente fenomeni rigorosamente determinati quanto la rifrazione della luce. Considerati in questo modo, alla stregua di materia inerte, i peggiori criminali fanno parte dell’ordine del mondo, e di conseguenza della bellezza del mondo. Tutto obbedisce a Dio, di conseguenza tutto è perfettamente bello. Saper questo, saperlo realmente, equivale a essere perfetti come è perfetto il Padre celeste».
Una pagina sconvolgente, ostica come poche; un cristianesimo inzaccherato di punte d’amor fati e perentorietà. Emerge in tutta chiarezza l’enorme capacità di ribaltare ogni visione “normale” delle cose. Si dovrebbe mettere al vaglio critico la precisione dottrinale d’ognuna di queste affermazioni. Tuttavia, una cosa è certa: il Signore weiliano ci porta, ogni giorno, dinanzi al muro scalcinato d’un vicolo, e come un ladro esperto, lo Svaligiaborse trascendente intima di restituire il maltolto: «O l’amore… o la vita!».
Lezione 4, Bellezza – La filosofa francese, continuando il discorso sulla matematica pitagorica in relazione alla “poesia numerica” del Creato, giunge a una definizione concreta della bellezza. «Ciò che permette di contemplare la necessità e di amarla è la bellezza del mondo. Senza la bellezza non sarebbe possibile. Perché il consenso, pur essendo la funzione specifica della parte soprannaturale dell’anima, non può effettivamente aver luogo senza una certa complicità della parte naturale dell’anima, e anche del corpo. […] La bellezza è un mistero; è quanto di più misterioso vi sia quaggiù. Nondimeno è un fatto. Tutti gli esseri, compresi i più rozzi o abietti, riconoscono il suo potere, sebbene pochissimi ne posseggano il discernimento e la consuetudine. La si invoca nella più infima dissolutezza». Dichiarazioni dal sapore dostoevskiano. Il merito maggiore dei Pitagorici è stato quello di mettere in relazione la bellezza geometrica della natura con il principio unico della deità. Per tale ragione, «alla matematica si fa doppiamente torto quando la si vede come una speculazione razionale e astratta. È questo, sì, ma è anche la scienza della natura, una scienza affatto concreta, ed è anche una mistica. Le tre cose insieme, e inseparabilmente». Da qui parte forse la più grande rivolta della nostra epoca, annunciata anche da Albert Camus: la rivolta della bellezza. Essa restituirà, al di là del nichilismo, il ruolo della necessità stabilita da Dio.
Lezione 5, l’ultimo montante di Dio – Simone Weil, dopo aver analizzato scrupolosamente Iliade, Platone e i Pitagorici, arriva a una conclusione netta: già all’interno della grecità, intesa come pensiero rivolto a Dio, si percepisce il carattere esistenziale di sventura e di pura gioia, come le due facce della moneta. «L’effetto principale della sventura è quello di costringere l’anima a gridare “perché”, come fece il Cristo stesso, e a ripetere quel grido ininterrottamente, salvo quando lo sfinimento lo interrompa. Non c’è alcuna risposta. […] Se la parola “perché” esprimesse la ricerca di una causa, la risposta apparirebbe facilmente. Esprime invece la ricerca di un fine. Tutto questo universo è vuoto di finalità. L’anima straziata dalla sventura, che grida di continuo invocando una finalità, tocca quel vuoto. E se non rinuncia ad amare, un giorno le accadrà di udire non una risposta al suo grido di domanda, ma il silenzio come qualcosa d’infinitamente più colmo di significato rispetto a qualsiasi risposta, come la parola stessa di Dio. […] Il grido del Cristo e il silenzio del Padre compongono insieme l’armonia suprema, di cui ogni musica non è che un’imitazione». Il montante di Dio, sul far dell’aurora, lascia a terra, svenuta e sanguinante, la sua difficile avversaria.
Simone Weil morì a trentaquattro anni. Accettò come un croce sventura e sacrificio di sé, lavorò in fabbrica con gli operai, non si vestì di roboanti parole al pari di molti filosofi del suo tempo, ma dimostrò coraggiosamente nei fatti le conclusioni estreme a cui era giunto il suo amore per la verità. Osò fare a pugni con Dio. E fu dolce la sua sconfitta.