Erminia Pellecchia
La mostra curata da Viliani e Rabottini

Un’arte di contatto

Al Madre si completa l'omaggio di Roma, Torino e Napoli a Ettore Spalletti. A Palazzo Donnaregina lo spettatore entra in un mondo dove forme, luce e colore si uniscono in un solo elemento

«Uso di frequente l’azzurro. È il colore del cielo. I nostri piedi poggiano sul verde dei prati e sul marrone della terra, ma il nostro corpo è avvolto dall’azzurro. È un colore che si offre sempre in maniera diversa, si sposta verso il grigio, verso il verde, verso l’oltremare. Il cielo mediterraneo è un cielo di meditazione, quando fai una passeggiata sul mare vedi l’azzurro che diventa sempre più profondo e verso sera diventa tutto d’argento, la linea dell’orizzonte non si vede più. Il mare si congiunge con il cielo. Senti che lo spazio non finisce mai, non c’è immagine, ma se provi a bucare l’azzurro con un dito cosa trovi? Sei nella realtà contemplativa… penso a Beato Angelico». Ettore Spalletti racconta la sua avventura di luce e di colore nell’ex convento di Donnaregina, dove, fino al 18 agosto, è ospitata la retrospettiva a lui dedicata, ultimo capitolo dell’unica grande mostra Un giorno così bianco così bianco declinata tra Roma, Torino e Napoli.

Oltre settanta opere del maestro abruzzese sono, infatti, spalmate tra Maxxi, Gam e Madre: tre luoghi distanti che abbracciano l’intera Penisola, tre musei diversi per storia e natura giuridica (nazionale il primo, civico il secondo, regionale il terzo), in “rete orizzontale” per un progetto, definito da Pierpaolo Forte, presidente della Fondazione Donnaregina, «repubblicano». «L’Italia – ammette con orgoglio – ritrova la sua unità nel segno dell’arte e nel nome di un artista che, come pochi, mette in dialogo il retaggio classico con le temperie della contemporaneità».

spalletti 3Il cielo in una stanza. La luce che penetra diafana dai finestroni del vecchio convento napoletano avvolge le lievi vibrazioni di pigmenti liquidi e le alterate geometrie di Spalletti (nella foto) che sembrano, come dice con stupore quasi fanciullesco l’autore, «depositarsi sulle pareti da sole». «Il museo – sottolinea Andrea Viliani, curatore con Alessandro Rabottini dell’esposizione al Madre – si ripiega su se stesso, in un modo quasi auto-riflessivo, meditabondo, severo e solitario. Sala per sala, opera per opera, pagina per pagina, come gli affreschi-preghiera del Beato Angelico nelle celle del monastero di San Marco a Firenze. O come nella ritmica meditativa del lavoro quotidiano, con cui le opere sono collocate, per la lavorazione e la visione, nello studio di Spalletti a Cappelle sul Tavo, in Abruzzo». In questa luce metafisica il colore assorbe il tempo; i lavori, che raccontano di una ricerca di trascendente, inesausta, dal 1969 ad oggi, si dissolvono in un eterno presente. Il percorso nei diciassette ambienti del terzo piano del Madre emana un’emozionante religiosità, spinge la coscienza ad interrogarsi, così come fa Spalletti, sul senso dell’esistenza. Non si può sfuggire al richiamo, da osservatori ci trasformiamo in attori.

E, nell’apparizione magica e sospesa di quei quadri scultura che si adagiano fluidamente nel bianco così bianco del museo-madre che li ha generati rigenerandosi, il pensiero va a San Tommaso d’Aquino: «Se lo spazio è forma geometrica e la luce divina riempie lo spazio, come negare che la forma geometrica sia la forma della luce?». Ecco: dare forma alla luce, rendere visibile l’invisibile è l’ossessione-impegno del mistico Spalletti, che platonicamente rincorre la bellezza, manipolando materie e colori in un anelito di armonia.

C’è a inizio mostra la bella foto di Giorgio Colombo (la ritroviamo come cifra identificativa anche al Maxxi e alla Gam) che coglie l’artista con le mani impregnate di colore. Documenta l’intervento del 1976 alla Galleria Pieroni di Pescara: due blocchi in pietra di quello che era un antico bagno borbonico furono rimossi e lo spazio vuoto colmato con due calchi di gesso, uno rosa, l’altro azzurro. Spalletti pulì la superficie di entrambi i blocchi con un gesto lievemente abrasivo in modo da produrre una polvere di pigmento che si depositò tutto intorno all’opera intitolata E porgere chissà…: un gesto generativo, perché istituisce – spiega Rabattini – quella relazione con il colore concepito come spessore, volume e spazio che governerà da quel momento in poi tutta la sua arte.

spalletti1Ed è lo stesso Spalletti a ribadirlo: «Sì, il colore, come si sposta, occupa lo spazio e noi entriamo. Non v’è più la cornice che delimita lo spazio. Togliendola il colore assume lo spazio e invade lo spazio. E quando questa cosa riesce, è miracolosa». Un’affermazione paradigmatica che non a caso i curatori hanno posto come distico all’esposizione-narrazione del Madre. Quaranta opere, alcune mai esposte, altre che costituiscono momenti fondativi della carriera di Ettore Spalletti come l’installazione-scultura Foglie (1969) mai uscita finora dal suo studio, o come Presenza stanza del 1978 dalla quale si origina il discorso – poi divenuto centrale – sul rapporto tra pittura e scultura come articolazione del colore e dei volumi nello spazio, come corpi che abbandonano la parete e il piedistallo per poter vivere in una relazione sensibile con l’architettura e con lo spettatore. Entrare in contatto col minimalismo cromatico di Spalletti è un’esperienza visiva che si fa tattile. Ti viene naturale la voglia di toccare, di portare via con te quel colore che assorbe, che viene dal tempo e attraversa il tempo. E Contatto, appunto, è il titolo della grande installazione del 1976: due lastre di cristallo da cui si sprigiona la polvere di luce che irradia il bianco delle pareti sagomate da lamine d’oro. Tattilità e sguardo: la Colonna di colore (1979) è una solitaria presenza scultorea che trasforma il colore in pilastro di architettura, coniugando in sé la memoria del tempio classico con la modernità dei volumi puri. E, ancora, mistiche contemplazioni, visioni dell’anima come la Pietra di Smeraldo del 1989, omaggio a Ildegarda, la santa filosofa e naturalista. La natura è fortemente presente nell’universo Spalletti, anche come scelta di vita. Il suo studio (un film di Pappi Corsicato ci permette di viverlo) è circondato da montagne, il mare si avverte in lontananza, non ci sono orizzonti, l’esterno si riverbera all’interno. Gli echi segreti di questo paesaggio onirico si proiettano nell’astrazione figurativa della Bella addormentata (1975), il Gran Sasso come una donna che giace nel sonno, e nelle sfumature di verde della Montagna riflessa del 1985. Immagini incise sulla retina e sul cervello, percezioni che si fanno rappresentazione in una profondità intimamente sinestetica.

Il catalogo-libro d’artista delle tre mostre-luoghi e momenti di esperienza è di Electa. Per informazioni: http://www.madrenapoli.it/mostre/ettore-spalletti-un-giorno-cosi-bianco-cosi-bianco/

Facebooktwitterlinkedin