In margine al debutto di "Patria Puttana"
Nostro teatro meticcio
«Sono affascinato da Napoli, questa povera-ricca città: ammiro e guardo con compassione i suoi maltrattati splendori. E il miscuglio di lingue e linguaggi è il solo modo per rappresentarla». Incontro con Enzo Moscato
Sala Assoli: un piccolo spazio celato nei vicoli dei Quartieri Spagnoli, il rapporto tra pubblico e attori è diretto, qui il teatro trova corporalità, libertà, creatività, pensiero originale. Qui Enzo Moscato, il drammaturgo-filosofo, il cantore della differenza e della contro-serialità, ha messo in scena, con Cristina Donadio e Giuseppe Affinito – l’allestimento è di Tata Barbalato – Patria Puttana, una raccolta di frammenti di suoi testi, scritti nel corso di trentaquattro anni: «un’operazione di collage – spiega – scegliendo qua e là brani dei miei lavori con la sola logica dell’assonanza e del ritmo, non badando cioè alle storie che raccontano».
Estetica dell’ossimoricità, la sua, secondo alcuni critici teatrali.
Mi capita di accostare brani che non si assomigliano per niente, perché amo proprio l’estetica della contrapposizione. Anche il titolo di questa ultima produzione è un ossimoro, perché metto insieme due termini opposti: patria e puttana.
Dalla Signora di Piece noire all’Assunta di Bordello di Mare con città, dalle “omologate di mestiere” (Lulù 1, Lulù 2, Lulù 3) di Trianon a Luparella o a Bolero Film e Grand Hotel di Ragazze sole con qualche esperienza… donne perdute come la nostra Italia?
L’Italia è al disastro e Napoli lo rappresenta al massimo livello. Le donne di piacere, vendute, comprate, mercificate, ferite, presentano l’emblematico senso di una città fin troppo bistrattata e martoriata, avvolta in troppe subdole semplificazioni.
Ed Enzo Moscato di Montecalvario, napoletano verace, usa ancora una volta la sua migliore arma, la parola, per un’azione, necessaria, di r(i)esistenza.
Di Napoli si dice di tutto e di più, spesso in male. Si guarda alla superficie, non nel profondo di questa complessicity che è luogo dell’anima e metropoli con tutte le contraddizioni della cultura del vicolo che vive fianco a fianco e si stratifica con le trasformazioni della cultura metropolitana. Ci sono città nel mondo dove prosperano, apparentemente, benessere e tranquillità. Penso a Monaco, dove sono stato recentemente, illuminata da grandi griffe, prosperosa di musei ed eventi, che usa la cultura con furbizia commerciale. Cinquant’anni avanti a noi, ma una semplice vetrina consumistica. Napoli, invece, è universale. Mi è venuta la strizza di scappare, sono ritornato di corsa a casa.
Non sa vivere lontano da Napoli.
Sono affascinato da questa povera-ricca città, ammiro e guardo con compassione i suoi maltrattati splendori. Sì, ha ragione. Credo che Napoli possa resistere e riesistere attraverso il suo cuore invisibile. L’inorganico – le pietre millenarie, l’identità di crocevia culturale, il paesaggio straordinario, la sua umanità, la storia – è la sola speranza, l’unico motore per accendere le coscienze e avviare un processo di conversione. I mali di questa città non sono il tessuto urbano degradato o i mariuoli che descriveva già Boccaccio nel Decamerone. Fa parte del gioco del bello e brutto che convivono e ti ci attrezzi, sai che ci sono dei rischi e ti metti la “tuta mimetica” non certo il Rolex o il brillante quando cammini. Il vero male è chi governa Napoli: non faccio riferimento a persone, ma alla politica cinica e indifferente all’etica, che rimuove la storia e la memoria. Ci vorrebbe, e purtroppo non c’è, una grossa guida carismatica per gestire Napoli.
Lei è tra i protagonisti indiscussi del nuovo teatro, eppure qualcuno l’accusa di essere troppo attaccato a Napoli.
I miopi, che non conoscono la mia opera di filosofo ricercatore, mi vedono fermo al campanile. Ma nei miei testi riecheggiano le influenze della migliore drammaturgia europea e gli echi delle migliori filosofie decostruzioniste francesi. I miei modelli poetici sono Rimbaud, Genet, Artaud, Copi, Fassbinder, Koltès, i miei punti di riferimento sono Croce, Basile, Sannazzaro, i nuovissimi del Gruppo ’63, gli amici che non ci sono più, Carmelo Bene e Leo De Berardinis, con cui c’era una bellissima affinità elettiva.
Un’insopprimibile eredità è Carlo Emilio Gadda.
La lingua meticcia di Gadda ha avuto un’influenza non da poco su di me. Il mio è un teatro di parola, ne faccio un uso smodato e bulimico. Il napoletano, lingua meticcia per eccellenza col suo mix di greco, latino, francese, spagnolo, tedesco, si presta al mio teatro viscerale e visionario, al mio affabulare all’infinito per usare un’espressione di Pasolini, altra figura a me cara. La mia è un’oralità-vocalità-aedofonia che si fa scrittura che, a sua volta, ridiventa oralità, mantenendo con la scrittura da cui prende le mosse una dialettica interna, corpica, ritmica, pulsionale, sensica, significante, poetica.
Ci saranno altre repliche di Patria Puttana?
Spero di sì, ma non so dirle. Di questi tempi noi teatranti viviamo un po’ alla giornata, i destini e i futuri del teatro non vivono un’epoca grande, l’altro teatro, quello di ricerca, ha vita esigua. Ha bisogno di farsi vedere per esistere, ma non ci sono più referenti, né occasioni. Io e Annibale Ruccello negli anni Ottanta eravamo due perfetti sconosciuti, addirittura eravamo visti male nell’ambiente perché facevamo un uso massiccio della parola che, a quei tempi, a teatro, era considerata fuori moda. Ma giravamo tanto, in Italia e all’estero, non ci arrendevamo ai fischi. Poi sono arrivati i premi, nell’’85 lui l’Idi io il Riccione, e l’anno successivo, un mese prima che Annibale morisse, il debutto ufficiale, insieme, al Festival di Montalcino, ed il riconoscimento della critica. Oggi c’è una contrazione territoriale, non dovuta solo ai tagli allo spettacolo, ma piuttosto ad una mutazione antropologica. Si legge meno, si riflette poco, c’è l’impero scemenziale della televisione a cui il teatro consumistico si è adeguato. La proposta colta viene messa da parte, bocciata come seria, svisando il termine leggerezza. Non ci sono più i luoghi deputati. Il teatro italiano è privo di teatro, mi sento isolato, spero che nasca qualche altra entità, un altro Carmelo Bene che rompa le cose.
E i giovani?
Sono, mi dispiace dirlo, in gran parte dei vuoti a perdere, non hanno cultura, né serietà professionale, sono attaccati ai soldi e vogliono subito essere famosi. I giovani hanno necessità di una voce maestra. A chi frequenta i miei laboratori dico sempre: dovete rinunciare all’effimero, dovete essere preparati dentro, dovete impegnarvi e fare sacrifici, lavorare sugli spazi della creatività che avete dentro di voi, il teatro è misticismo, carnalità, il contrario del successo, ma l’unica arma per essere liberi.