Un lungo saggio su Garboli e Calvino
Ritratto per due
Analisi in parallelo della malattia (e del gioco) della scrittura in Cesare Garboli e Italo Calvino. Due grandi intellettuali che molti hanno letto in contrapposizione. Ma vediamo perché questo è solo un pregiudizio sbagliato
Sono passati dieci anni esatti dalla morte di Cesare Garboli. Modello spesso frainteso (lo ricordava a ragione sulle pagine del «Foglio» Matteo Marchesini, qualche settimana fa) e per molti critici, giovani e non, eletto a santo protettore per lo scarico di coscienza della somma tentazione dell’arte, della seduzione di “fare romanzo” (non ultimo per ragioni di appeal commerciale). Quel Garboli che s’impegnava in Pianura proibita (2002) a chiarire, per primo a se stesso, il nodo: cioè se fosse un vero critico o uno scrittore prestato alla critica. E che intervistato da Corrado Stajano, confessava: «Io tendo a fuggire, a nascondermi. Accetto le committenze proprio per non avere a che fare con quella che viene chiamata creatività, se penso di scrivere veramente quello che sento, ho paura» (Stajano, Maestri e infedeli, 2008). Per lui, scrivere, dopo essere stato sui libri, somigliava piuttosto al sopravvissuto che parli, ogni volta, come sporgendo fuori la testa dal sepolcro, per vincere quel senso di caducità che lo assaliva alla fine di ogni lettura. Da lettore, attraverso le sue “traduzioni”, degli scrittori aveva il desiderio di riportare a casa le parole (come Vespero le capre), restituendole alla vita, al mondo che conosciamo. Ciò sembrava gli riuscisse meglio con gli amici, da Longhi a Soldati, dalla Morante alla Ginzburg, da Penna a Delfini. Forse per la possibilità di scrutare più da vicino, mettere a frutto le sue doti indiscusse e istintive di patologo – Sainte-Beuve ribaltato (come lo ribattezzò Giovanni Raboni) –, capace di risalire dalle opere al calco di un destino (il più delle volte rimasto imploso, inespresso). Convinto com’era che si scrive se non «quando e perché si è malati». Al critico, pertanto, non rimaneva che illuminare, mettere in scena (come l’amato Molière), ciò che è «già conosciuto e nascosto nella vita». Insinuarsi in quella specie di “terra promessa” tra il libro e la vita che (come sostiene Garboli stesso in Falbalas, 1991) è carica di segni, indizi, inattese agnizioni.
Tra i tanti, mi ha sempre lasciato pensare l’oroscopo che Garboli è andato definendo, ogni volta che se n’è occupato, sul caso Italo Calvino. E c’è una lettera inviata da Parigi dal ligure (2 dicembre 1967) che mi pare giovi non poco a illuminare il senso dell’analisi garboliana che qui vorrei discutere. In essa, Calvino si compiaceva del fatto che, recensendo i racconti di Ti con zero (1967), Garboli fosse riuscito a rinvenire una «unità di discorso», sbalzando un ritratto tutto centrato sul problema dell’identificazione dell’io autoriale. Ma, ciò che più conta, Calvino concludeva quella lettera con una, per nulla innocua, correzione: a interessare non deve essere la scoperta di chi sia quell’io che scrive (cosa accessoria e secondaria) quanto il desiderio di «capire il mondo che ci contiene (e se mai, se stessi in negativo)». E aggiungeva, ricorrendo all’immagine della prigione labirintica, vero e proprio emblema figurale e metaforico di tutto il libro: «capire il mondo-prigione, non il prigioniero sempre empirico fungibile provvisorio». Garboli a diagnosticare il male, Calvino a insistere sull’imperativo primo di comprendere il mondo che ci contiene, in un educato braccio di ferro tra le ragioni del critico e quelle, di poetica, dell’autore. Non serve stabilire chi dei due avesse ragione, perché probabilmente i due discorsi non sono (come vedremo) così separati l’uno dall’altro. Nel fissare l’«eccentricità» di Calvino nel panorama della letteratura italiana, Garboli (ancora in Pianura proibita) rimanda alla natura puerile del suo dinamismo intellettuale, palese sin dal picaresco esordio con Il sentiero dei nidi di ragno (1947), letto al di fuori della prospettiva partigiana, a privilegiare l’antagonistico rapporto verticale tra infanzia ed età adulta (con la straordinaria metafora dei “nidi di ragno”, appunto); come a dire che non corre differenza tra vita e gioco. Nell’oscillazione tra Pin e Palomar è riassumibile, infatti, la cifra, lo stemma della mente dello scrittore: a raccontare il romanzo di una mai del tutto esperita maturità. In tal senso, nel passaggio dal primo al secondo Calvino (e in ciò conveniamo con Garboli) non assistiamo a nessuna palinodia. Anche la svolta intorno ai Sessanta, dall’epoca dei grandi maestri e dell’ideologia a quello delle nuove idee, pur senza soluzione di continuità, avrebbe rappresentato (stando ancora alle parole del critico) una «emancipazione» nei fatti diversa da quella sognata sulla carta, per quel farsi solitaria e (in certo senso) tragica dell’avventura del gioco, a riconoscerne i sintomi di una imprevista pesantezza. Stupisce, e parecchio, il fatto che Garboli, nel diagnosticare una puerilità bloccata come condizione permanente dello scrittore, si affretti tuttavia a precisare che essa non conosca nevrosi. E qui credo che il critico, nella dimostrazione del suo teorema di vita, nel tentativo di far quadrare il discorso, abbia commesso una volontaria trascuranza: il tacere cioè che questa prorompente cristallina puerilità espressa per mezzo del gioco intellettuale fu, insieme, la sua conclamata nevrosi. Il cui segno manifesto, ancora, fu l’interminata ricerca di metodo nella quale trasformò, da un dato momento in poi, ogni suo progetto letterario. Indicazione che possiamo desumere anche da un eloquente passaggio della Taverna dei destini incrociati (1973), forse il suo più frustrante fallimento letterario. Infatti, in uno dei momenti di sottovalutata autobiografia intellettuale, Calvino – nel tentativo di riscrivere nella Taverna la storia shakespeariana di Amleto – si lascia scappare, parlando per bocca della figurina del Folle, questo autoritratto d’artista: «se la sua è nevrosi, in ogni nevrosi c’è del metodo e in ogni metodo, nevrosi». A dire proprio dell’inscindibile complementarità che lega il gioco letterario alla sua vita.
Ed è senz’altro singolare notare, sia detto di passaggio, come lo scrittore del Novecento italiano che fece dell’occultamento dell’io autoriale il suo primo vanto, possa essere ancora meglio inteso se solo si ha la pazienza di leggere, nel modo giusto, i pochi indizi disseminati nelle vite esemplari e stenografate (a una dimensione) dei suoi personaggi-funzione. Tornando alla «pesantezza» imprevista assunta dal gioco, entro una zona di disagio destinata a estendersi a macchia d’olio – è il meta-romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) a non lasciare più dubbi sulla disfunzione in atto: per il Garboli di Falbalas, se il miglior Calvino sta sempre là dove più emerge il calco di un intramontato giovanilismo, tuttavia la novità risiede nel fatto che qui «il gioco è inferiore al malessere che lo ispira»; come a dire che dietro a quell’edonismo giocoso, nel mettere insieme gli incastri del puzzle, si cela la pena segreta di uno scrittore «che non si piace più». E ciononostante persevera, nega di condividere con il lettore la sua disperazione, tormentato com’è dall’ossessione di elidere l’io attraverso l’obliterante e asettica ricerca di una plausibile chiave interpretativa del reale. Siamo alla proiezione verso il labirinto esterno, al rompicapo iper-complesso che nega ogni barlume di autobiografismo. Siamo, di nuovo, alla dialettica tra vita e gioco suggerita dalla lettera inviata da Parigi. Ché Se una notte non è soltanto la maliziosa operazione di smerciare, volgarizzandola, il portato di una teoria della letteratura. Piuttosto – per riprendere un dualismo, in più luoghi evocato dallo stesso Garboli, tra lettura e scrittura, visione e cecità – Calvino, al vertice del suo virtuosismo polifonico e combinatorio, continua a scrivere “con gli occhi chiusi”, nel senso che la Lettura (attraverso le predilezioni della Lettrice Ludmilla) si nega in Scrittura. E la scrittura, ci dice Garboli, è donna. Così concludendo, a riguardo, con facile sillogismo: «il romanzo è “donna”». Quale, allora, il senso di questa indistinzione di lettura e scrittura, visione e cecità? Basta guardare all’ennesimo santino (compresso su uno sfondo caratterizzato da una voluta assenza di profondità) frutto delle stilizzazioni bizantine della sua penna, a rendere in maniera scorciata e plastica il destino del personaggio-uomo, che qui coincide con l’intoppo interiore dello scrittore: si tratta di Silas Flannery, scrittore in crisi ritiratosi a vivere in uno chalet svizzero, che nel suo diario chiarisce a se stesso come a guastare ogni esperienza di scrittura sia «ciò che resta fuori», il «non-scrivibile». E non solo, in teoria, nel senso dell’inseguita utopica sutura tra caos della vita e simmetria della pagina: ciò di cui non si può scrivere, ciò che davvero rimane fuori, ciò che è pur sempre presente nel ragionare per sottrazione del ligure, è qui il suo io lacerato («Come scriverei bene se non ci fossi!»); ferita che si fa sentire ogni qualvolta tenta goffamente di metterlo tra parentesi, sforzandosi di credere alla favola del «capire se stessi in negativo» (si rammenti ancora la lettera dalla quale il nostro discorso ha mosso i primi passi). Il tentativo di scrivere tornando a vedere, programmaticamente, epperò ancora una volta come scelta procedurale e di metodo, lo si avrà con le avventure di Palomar (1983): un io che dispera di annullarsi, mentre cerca di cartografare ciò che vede. Ma fermiamoci alla rassegna narratologica di Se una notte.
Dopo lo spartiacque rappresentato dal filosofico libello di perplessità esistenziale de La giornata di uno scrutatore (1963), preludio alla piena stagione della letteratura cosmicomica, sul finire dei Settanta, Italo Calvino, concependo l’ipermetafiction che lo consacrerà come autore di rilievo mondiale, certifica in maniera definitiva l’inquietudine di fondo di una crisi che la vertigine del gioco letterario non riesce più del tutto a mascherare. «Nella scrittura ciò che parla è il represso» – così chiosava, sotto la tutela del grande interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, il narratore della Taverna, nel tentativo di rintracciare, nel rizoma dei tarocchi, la sua privata storia personale (Anch’io cerco di dire la mia). Paradossalmente, in Calvino il represso (ecco ciò che Garboli sembra abbia voluto omettere) ricompare sotto forma di ossessione sostitutiva, tic intellettuale. Diventa l’obbligato fuoco su cui appuntare la propria attenzione, come si trattasse del consueto rompicapo enigmistico da risolvere, rimuginando sulle intrecciate questioni dell’impossibile annichilimento dell’io, dell’impotenza della letteratura di star dietro al mondo appena oltre la pagina, dell’utopica ricerca di un univoco canone di “lettura” del reale (quello che altrove ho definito il discorso sul metodo). A polverizzare la finta retorica del lasciar spazio al Lettore (maiuscolo o minuscolo poco importa), quand’è Calvino a imbeccarlo a ogni svolta, i racconti-incipit di Se una notte funzionano a patto che si leggano, nel loro complesso, come un variato catalogo di possibili stili di approccio alle cose del mondo, via via falliti e perciò, popperianamente, scartati. Il modello conoscitivo di riferimento rimane perciò quello che tiene in stretto rapporto d’interdipendenza teoria ed empirismo, ipotesi deduttiva e osservazione pratica, sulla falsariga della lezione del razionalismo critico di Karl Popper: «l’epistemologo che più mi ha convinto è il Popper» – dichiarava apertamente in una lettera a Mario Boselli (Parigi 23.10.1969), nella quale gli stava a cuore di spiegare la conclusione etico-gnoseologica, vero e proprio punto d’arrivo per il ligure, contenuta nel racconto finale del Montecristo in Ti con zero. A narrativizzare, secondo uno schema di complementare e reversibile oscillazione di opposti, una dualità poi incarnata da un’affollata teoria di stenografiche esemplificazioni: si pensi, oltre alla coppia Dantès-Faria, nella riscrittura potenziale del classico di Dumas, alla luminosa sintesi cui dà vita il dialogare di Kublai Kan e Marco Polo nella cornice delle Città invisibili (1972) e, più in generale, alla visionaria e pur realissima geografia che sostanzia, in maniera perfetta, l’intero libro. Oppure, prendiamo il santino bifronte del Sangiorgio-Sangirolamo nella Taverna, a contornare il potenziale etico di un simile principio duale e reversibile («il personaggio in questione o riesce a essere il guerriero e il savio in ogni cosa che fa e pensa, o non sarà nessuno»). Per tornare all’iper-romanzo, pensiamo ancora al contrappunto costituito dalla coppia Non Lettore/Lettrice (Irnerio e Ludmilla), il primo pronto a dar credito a ciò che si vive istante per istante, l’altra all’accumulo di sapere possibile solo per mezzo dei libri. Fino alla sterzata antiretorica, alla critica serrata dei metodi e dei modelli filtrata attraverso i raccontini palomariani, al riparo da ogni preordinato disegno, per venire finalmente in contatto, come ricorda Celati, con quella “prosa del mondo” di cui parlava Merleau-Ponty.
Garboli non gli perdonò mai l’overdose d’idee, l’incaponirsi nel freddo ragionare sul potenziale dei possibili, di «civettare con la sua disperazione», restituendola in un irritante falsetto intellettuale, nei suoi (tanti) sudati e imbellettati apocrifi; l’assurdo affannarsi a mettere in scena un inferno di carta progettato a tavolino, anziché raccontare senza fronzoli «la sua via di Damasco». Non gli perdonò mai questo tratto della sua fisionomia di scrittore, al punto di tralasciare di chiamare col suo nome quella che fu la sua unica compulsione, la sua vera nevrosi. Rimprovero sul quale il critico avrà modo di tornare a riflettere, con sincero rammarico, quando nel 1990 saluterà con commosso entusiasmo (in un pezzo scritto su «Panorama») l’uscita in volume per Mondadori di un racconto sintomatico, «fatto tutto di cose», come La strada di San Giovanni (1962). Quella narrazione increspata e, pur nella sua mobilità, altrettanto nitida, Garboli volle infatti leggerla come involontaria metafora, epitome di tutto Calvino, che con essa vergava, a partire dal rapporto padre-figlio, l’autoritratto della sua inquietudine. Per poi tornare con retorica amarezza a interrogarsi (nel finale di quel pezzo) su ciò che gli riusciva davvero incomprensibile: l’origine del masochistico zavorrare ogni prova futura con astrazioni, virtuosismi, calcoli e strategie raffinatissime. A impressionarlo, insomma, era l’ostentata dissipazione di un sicuro talento, lo spreco imperdonabile di quel rompersi la testa a filosofeggiare sulla radice quadrata della letteratura (autentica coperta di Linus del ligure). Certo, La strada di San Giovanni contiene in sé le coordinate esatte da cui deriva la geografia della scrittura calviniana. E quel racconto potrebbe essere usato benissimo per dimostrare quanto il suo progressivo allontanamento dalle forme ortodosse di militanza (erano i primi anni Sessanta) fosse legato anche alla necessità di un recupero di memoria che non poteva non passare dalla ricostruzione del rapporto con i luoghi suoi e del padre (così come rivela quanto l’attenzione alla scienza, il discorso sul metodo, l’ossessione, infine, di “dire” il mondo, gli derivassero dall’eredità di famiglia).
Ma non interessa qui restituire legittimità al percorso intellettuale di uno dei più singolari autori del secondo Novecento, né ha senso, tanto meno oggi, schierarsi (come fece Guido Almansi dalle colonne di «Repubblica», polemizzando con Garboli proprio dopo l’uscita di quell’articolo su «Panorama»), assumere la difesa di un’idea di letteratura declinata come artificio (meditazione su se stessa) o del pensare a essa come sempre rivolta a quell’altro da sé che non può non coincidere con il rovescio oscuro della vita. Il tentativo, piuttosto, vorrebbe essere forse assai più ambizioso: provare a restituire Calvino a Calvino. Estrarre davvero la radice quadrata del senso di quelle pagine imbellettate; farsi interpreti, critici e non gregari (e in ciò accogliendo l’invito dello stesso Garboli), del «maquillage» che imbratterebbe la pagina. Il vero dramma che Garboli fino alla fine negò o si rifiutò di accettare fu, in Calvino, l’impresa disperata di tenere insieme la facciata e la ferita, l’elemento puro e quello impuro, la letteratura e la vita (ciò che più sembrava essere allo scrittore la sua totale negazione). Del fardello di far coesistere una sì pesante endiadi – facciata e ferita –, è figlia la fatica di imporsi il passo leggiadro e nervosamente disinvolto da puer incallito, l’ansia di mostrare, sempre e solo, la punta dell’iceberg, ricacciando oltre la siepe delle pagine (fitta e ordinata quanto si vuole) le fobie del sottosuolo. E l’incapacità, in breve, di colmare la misura tra questi due poli, la rimozione che ne segue, sovente espressa nella forma di un’ossessione sostitutiva, è tragedia privata che ha riguardato scrittori molto diversi tra loro del Novecento italiano: penso al Gadda raccontato da Baldacci in Novecento passato remoto, o allo Sciascia riletto da Onofri in Altri italiani a partire dal momento di privata e dolorosa autobiografia del libretto poetico d’esordio (La Sicilia, il suo cuore), avanzando l’ipotesi feconda di come il nitore dell’inconfondibile prosa matura dello scrittore origini in ultima battuta da una violenta rimozione; e penso al siciliano Vincenzo Consolo, pronto ad anteporre il teorema nato già dimostrato della sua poetica di forte impegno, imponendosi d’ignorare il ghiommero che premeva dentro, fatto di «mutilazioni e nostalgie», agitato da più d’una incancellabile ferita. La dinamica sottesa è analoga: la rimozione che si tramuta in nevrosi. Il sommerso che, nonostante sia aborrito, addolcito o teatralizzato, preme ancora pur nel novero di pagine scolpite con spavalda sicurezza.
A pensarci bene anche Garboli giocava a nascondersi, intimorito da quell’oggetto misterioso che è la creatività («se penso di scrivere quello che sento, ho paura»), vissuta non a caso come stato di torpida vischiosa ottusità. Entrambi dunque, il critico e lo scrittore, fuggivano da qualcosa. Adesso, mi piace pensarli riuniti, ad assaporare il premio: l’aggirarsi insieme entro una sconfinata e solitaria «pianura proibita». A discutere delle reciproche e misteriose infezioni, a riannodare quel loro educato contenzioso, ma finalmente sollevati dal peso della paura.