Il successo di "Dominio Pubblico”
Prove di teatro nuovo
A Roma, Argot e Orologio per un anno hanno dato voce alla scena alternativa. Un'esperienza felice destinata a proseguire e a fare da esempio virtuoso per chi voglia rinnovare davvero il mercato teatrale
Progettualità sinergica e valorizzazione dei giovani. Sembrerebbe lo slogan di un’illuminata politica sociale e invece si tratta di una formula, fin troppo semplificata, che sintetizza le linee culturali percorse, in quest’ultima stagione teatrale a Roma quanto mai difficile e “povera”, da due piccole sale del centro, l’Argot e l’Orologio. Non fosse altro per il coraggio con cui i rispettivi direttori artistici (Tiziano Panici, Francesco Frangipane, Luca Ricci e Fabio Morgan) hanno attivato la ricerca di nuove modalità operative capaci di smuovere le acque intorpidite di un sistema produttivo e distributivo assai sofferente, questa duplice realtà merita un plauso particolare, tra l’altro avvalorato dall’affluenza del pubblico e dalla riconoscenza di tanti attori, drammaturghi e registi che hanno avuto – e avranno sino a fine maggio – la possibilità di presentare sulla scena romana i loro lavori.
Come molti dei lettori sapranno, si chiama Dominio Pubblico la piattaforma ideata dai due spazi off allo scopo di allargare l’offerta dei loro cartelloni suddividendo gli spettacoli nelle diverse sale come se si trattasse di un unico luogo teatrale. E dunque non un gioco di scambi e prestiti quanto, semmai, un progetto ragionato che ha fatto leva su una sovrapposizione di energie creative ed economiche e che ha disegnato una mappa di compagnie, ora note ora meno, emblematiche del nostro nuovo teatro. Intendendo con “nuovo teatro” anche una fetta di sperimentazione per così dire storica, decennale, e pièce prodotte qualche anno fa. Tanto da delineare un’antologia di generazioni, stili, linguaggi, approdi scenici e provenienze geografiche quanto mai diversificata. E se all’interno di questo poliedrico quadro di titoli, la drammaturgia contemporanea ha rivestito senza dubbio un ruolo di primo piano, essa ha spesso rotto i suoi tradizionali confini letterari per aprirsi a scritture fisiche e attoriali degne di nota, avvalorando l’idea che, pure in un momento di spaventosa crisi come quello attuale, nel nostro Paese esistono tante realtà teatrali serie che lavorano, inventano, costruiscono progetti, rinsaldano il legame con il loro stesso repertorio cercando di intraprendere ogni strada possibile per avere visibilità e pubblico.
All’interno di Dominio pubblico si sono infatti visti – o rivisti – a Roma spettacoli molto interessanti come, ad esempio, Corsia degli Incurabili di Walter Malosti (con una straordinaria Federica Fracassi), l’Amleto di Teatro Minimo e quello di Macelleria Ettore (nella foto in alto), due monologhi curati da Le Belle Bandiere (Non sentire il male con Elena Bucci, dedicato a Eleonora Duse, nella foto qui accanto, e Ella con Marco Sgrosso), All’ombra della collina di e con l’energico Vincenzo Pirrotta, il Don Giovanni di Sacchi di Sabbia, l’eclettico Col sole in fronte di Balletto Civile, l’assolo nostalgico Panza, Crianza, Ricordanza di Giancarlo Cauteruccio (sul cui itinerario artistico Titivillus ha recentemente pubblicato il bel volume Teatro Studio Krypton. Trent’anni di solitudine, a cura di Simone Nebbia) e il recente Zigulì che la Compagnia Teatrodilina (una formazione nata nel 2010 sulla base di una progettualità divisa tra teatro, cinema, video, musica, che ha avuto una segnalazione speciale al Premio Cappelletti 2013 per uno studio ispirato a Le anime morte di Gogol) ha presentato all’Argot nell’ultimo week-end: il bravo Francesco Colella delinea qui un padre e un figlio diversamente abile in un viaggio di reciproca conoscenza tratto dall’omonimo libro di Massimiliano Verga. Ma questo è solo un piccolo spaccato della ricca stagione messa in campo dalla sala trasteverina e dall’Orologio, impegnati nei prossimi giorni ad ospitare (insieme con Museo di Roma in Trastevere e il Museo di Palazzo Braschi) l’esito operativo di un’altra loro creatura: la rassegna ALL IN! Chiamata alle Arti, ovverosia una vetrina di spettacoli, mostre, corti cinematografi, esecuzioni musicali live organizzata e gestita in modo del tutto autonomo da alcuni giovanissimi under 25 (in collaborazione con Zetema e con il Comune), chiamati a “fotografare” la loro stessa generazione artistica.
Il generoso carnet delle proposte selezionate animerà i diversi spazi coinvolti da oggi a sabato 19 aprile con eventi pomeridiani e serali adatti ai gusti più diversi. E per capire meglio la novità del format vale la pena riportare la dichiarazione dei direttori artistici di Dominio Pubblico che scrivono: «Pensiamo che questo progetto abbia un carattere unico nel panorama culturale romano. Da ottobre ad oggi, ogni mercoledì, oltre trenta ragazzi under 25 si sono ritrovati nei nostri teatri per lavorare insieme ideando ogni aspetto di questo mini-festival, dal titolo alla scelta degli artisti, dall’organizzazione alla comunicazione. Scommettere sulla loro intelligenza collettiva è stata una straordinaria iniezione di energia per i nostri teatri e un atto di concreta fiducia nelle capacità delle nuove generazioni».
Medesima fiducia sembra infine animare il bando di produzione Dominio Pubblico Officine (con scadenza il 18 aprile), nato dalle felici esperienze di Argot Off e NeXwork allo scopo di sostenere e diffondere linguaggi innovativi: i gruppi interessati dovranno presentare uno studio di venti minuti e sperare di arrivare in finale; dopodiché il lavoro vincitore si aggiudicherà alcuni giorni di residenza per allestire lo spettacolo finale, una circuitazione di tre date nel Lazio organizzata dall’ATCL, una data ad Orvieto presso Artè_Teatro Stabile d’Innovazione e una settimana di programmazione nella seconda parte di Dominio Pubblico 2014/2015. (www.dominiopubblicoteatro.it).
Non poco, insomma. Motivo per cui cresce il sospetto che, se vogliamo intravedere scenari futuri migliori, dobbiamo cambiare lo sguardo. Dobbiamo prendere un cannocchiale rovesciato e puntarlo sui teatri piccoli, sulle realtà minori, perché, soprattutto quando le grandi istituzioni vacillano, i cambiamenti possono arrivare solo dal basso e dal periferico. D’altronde, una delle storie più belle che il Teatro del Novecento ci abbia mai raccontato (e lasciato in eredità) non è forse quella di Copeau?