Uno scrittore e un pittore
Monet e i Forsyte
Il ponte sullo “Stagno delle ninfee” di Claude Monet è l'icona precisa della sospensione tra spinte emotive e spirituali tipica di John Galsworthy, il padre della “Saga dei Forsyte“
John Galsworthy aveva un imponente spaniel dal mantello nero come la pece ed era cosa assai risaputa fra tutti coloro che lo conoscevano quanto egli amasse quell’animale. Si diceva che quella bestia, le cui sembianze riuscivano in qualche modo a ricordare quelle di un’importante, profondamente dignitosa creatura dal sangue reale ora in esilio contasse per lui più di se stesso, dei suoi amici e persino dei suoi libri. Durante gli anni della sua giovinezza era solito consumare i suoi pasti al Middle Temple, essendo egli un avvocato benché non praticante. Vi era moderazione in ogni cosa che faceva e meticolosità nel suo intento di passare inosservato in quei luoghi dove uomini della sua età erano soliti fare tutto il possibile per sortire l’effetto contrario. Vi era una trascuratezza studiata nel suo modo di abbigliarsi, il che gli permetteva di riuscire ad essere sempre e straordinariamente in armonia con quanto lo circondava.
Il volto sembrava sempre in procinto di sorridere, essendo la sua bocca circondata perpetuamente da quelle piccole rughe di espressione che solitamente annunciano l’arrivo di un sorriso. In verità egli sorrideva davvero molto raramente. Ed era questa sua caratteristica sempre a lasciare il segno in coloro che lo conoscevano. Il suo corpo dava l’impressione di possedere una fisicità lontana da quella dell’atleta, essendo questo aggraziato e poco dedito a qualsivoglia attività di natura sportiva, apparenza che nascondeva, come scrive nella sua autobiografia l’amico Ford Madox Ford, tutt’altra verità. Egli aveva muscoli di ferro e la resistenza di un vero e proprio campione, proprio come rivela il simpatico aneddoto riportato da Ford. Quest’ultimo un giorno andò a prenderlo alla stazione con una wagonette trainata da una giumenta. Galsworthy vi caricò sopra i suoi bagagli ma non salì a bordo perché desiderava sgranchirsi un po’ le gambe. Presto la strada verso casa si fece in salita e anche in cima a essa egli si rifiutò di salire. Per tutto il viaggio dalla stazione a casa, Galsworthy si mantenne accanto alla wagonette conversando amabilmente come se lui e Ford stessero passeggiando tranquillamente per Piccadilly Circus.
Guardarlo scrivere era come guardare un pittore davanti alla propria tela, e come un pittore indossava una gabardine ogni qualvolta si sedeva per lavorare. Aveva inoltre l’usanza di servirsi di matite o inchiostri di diverso colore, un sistema che egli stesso aveva inventato per distinguere i paragrafi appartenenti ai diversi personaggi delle sue storie. Ford in It Was the Nightingale fornisce una minuziosa quanto affettuosa descrizione di Galsworthy (nella foto) all’opera: «…era una figura eretta, magra, non molto alta, bionda, accampata davanti al suo scrittoio con una matita blu fra le labbra; nella mano destra reggeva una penna rossa appena acquistata e una profusione di altre penne e matite e gomme e arnesi campeggiavano sul bordo (del suo scrittoio ndr) davanti a lui… povero Jack!».
Jack Galsworthy, la cui famiglia (due curiosi genitori e una separazione in tarda età) e i cui amici si sono spesso presi giuoco della sua decisione di diventare scrittore, ha firmato numerosi romanzi, Jocelyn, The Island Pharisees, The Country House, The Patrician per citarne solo alcuni, scritti frutto di un percorso professionale non sempre facile per il quale ha sacrificato una promettente carriera in ambito legale. Ma il suo lavoro più celebre resterà sempre la Saga dei Forsyte, una raccolta composta da tre romanzi e due intermezzi: The Man of Property, Indian Summer of a Forsyte, In Chancery, Awakening e To Let.
L’intermezzo Indian Summer of a Forsyte è il vero tesoro di questa raccolta in quanto non solo svela al lettore cosa si cela dietro la severa e pragmatica facciata del vecchio Jolyon Forsyte ma racconta con straordinaria delicatezza e lucidità, usando spesso la natura, come vuole la migliore tradizione britannica, la storia di una rinascita alla vigilia di una morte.
Sono passati pochi anni da quelle vicende che non solo avevano fatto tremare le fondamenta di quell’insieme di principi e valori che Galsworthy chiama Forsyteismo, in primis una venerazione laica per il principio di proprietà, ma anche di una società in fase di sgretolamento eppure ancora così ostinatamente attaccata alle leggi, alla morale e all’etica dei propri padri fondatori.
La casa di campagna che June, la nipote prediletta dell’anziano Jolyon aveva convinto lo zio Soames a fare progettare e costruire al suo futuro marito, il giovane architetto Philip Bosinney, ora appartiene a Jolyon il quale vi abita con il figlio e i nipoti nati da quel secondo matrimonio che in passato aveva provocato tanto scalpore. Quell’amore sbocciato così inaspettatamente fra la moglie di Soames, Irene, e il giovane architetto, e divenuto in pochissimo tempo qualcosa di assoluto e travolgente ha avuto il suo tragico epilogo con la morte di Philip e il terribile abuso di potere di Soames che marcherà sia nel corpo sia nell’animo la povera Irene.
In Indian Summer of a Forsyte ritroviamo l’anziano patriarca Jolyon solo nella grande casa di campagna di Robin Hill in compagnia dell’adorabile nipotina Holly e della sua istitutrice francese Mademoiselle Beauce, una donna scostante ancora intenta a nutrirsi dei passati fasti quando era la governante di importanti rampolli. È un’estate calda e difficile per l’ottuagenario Jolyon, almeno fino al giorno in cui non avviene l’inaspettato incontro con Irene in una piccola radura dove ella si era recata di nascosto speranzosa di giungere a una sorta di comunione spirituale con l’amante perduto. L’incontro risveglierà i suoi sensi cambiando radicalmente il suo modo di vedere, vivere, esperire il mondo attorno a lui e dentro di lui. Succede così che la sua inclinazione a voler conferire ad ogni costo un ruolo nella sua vita alla Bellezza, che sia quella esuberante, ingenua e infantile della piccola Holly o quella placida e malinconica dell’attraente Irene sulla quale sono visibili i segni delle sofferenze e delle violenze passate, diventa un modo per aggrapparsi alla vita, la stessa che sente pian piano scivolargli fra le dita come fosse sabbia.
L’esistenza dell’Uomo è molto simile a un cerchio incompleto. Avviene a un certo qual punto di essa che quelle due estremità capaci di segnarne la completezza s’incontrino e che infanzia e vecchiaia si guardino dritto negli occhi per rendersi conto, dopo aver inizialmente creduto l’opposto, di essere l’una molto somigliante all’altra. Ed ecco il cerchio trovare la sua compiutezza. In Indian Summer of a Forsyte, Galsworthy racconta l’emancipazione, seppure parziale dell’anziano Jolyon da quei legami etici e morali che tengono unita una famiglia i cui membri non potrebbero essere l’uno più diverso dall’altro e cala il suo personaggio principale in uno stato di profonda comunione con la natura, con l’innocente quanto ingenua bellezza dell’infanzia e anche con quella triste e nostalgica di una donna il cui unico amore è stato tragicamente spezzato.
Il suo bisogno di unione con la spensierata bellezza dell’infanzia e quella femminile dell’enigmatica e ferita Irene trova il suo punto di incontro prefetto nell’arte della musica quando l’anziano patriarca chiede alla moglie del nipote di dare delle lezioni di pianoforte alla piccola Holly. Questo intermezzo è anche la delicata e sensibile cronaca di una battaglia contro il tempo di un uomo consapevole di essere pericolosamente vicino al proprio capolinea combattuta attraverso l’introspezione e il perseguimento del bello nella più nobile delle sue forme.
Quella dell’anziano Jolyon è una ribellione dai tratti impressionisti, dove il realismo della proprietà e del Forsyteismo non hanno più ragione di essere ed è la sua soggettività, la sue emotività dettata da un momento così cruciale della sua stessa esistenza a farla da padrone in un alternarsi continuo di spinte emotive e spirituali. E non vi è dipinto più adatto per rappresentare l’ultimo viaggio emotivo di quest’uomo de Lo stagno delle ninfee, dipinto da Claude Monet nel 1899. A supportare questa tesi non è unicamente quella condizione isomorfica fra la tecnica impiegata dall’artista francese e il vissuto interiore del personaggio di Galsworthy ma anche la presenza di quel piccolo e spartano ponte che congiunge una riva dello stagno all’altra. Il paesaggio vergine, incontaminato dalla fitta vegetazione conferisce a quel ponte al suo centro sembianze oniriche e caratteristiche che sono proprie dei paesaggi dell’anima.
Dispiace un po’, benché non si possa fare a meno di provare una profonda empatia per la sfortunata Irene, sapere che l’anziano Jolyon abbia anche solo per un attimo fatto ritorno alla propria natura di Forsyte prima di attraversare quel ponte una volta per tutte.