Angela Scarparo
La morte di un mito/2

Le donne di Gabo

Gabriel García Márquez è stato il poeta dei fallimenti. E in questa chiave ha sempre ritratto femmine sottomesse e perdenti. Tutto il contrario di ciò che volevamo essere...

In un suo bel libro del 2005, intitolato Spectrum (pubblicato in Italia nel 2008 da Baldini Castoldi e Dalai, tradotto da Giuseppe Gallo) lo storico britannico Perry Anderson, sostiene una tesi banale, ma a mio parere vera, che è questa: nei paesi occidentali, la sinistra si è sempre dedicata, e con più successo della destra, alla storia, e alle riflessioni teoriche che la riguardano, perché più frequentemente dell’altra parte politica (che tradizionalmente si dedica al governo e alla repressione) è stata costretta a riflettere sulle proprie sconfitte.

Se Anderson ha ragione, una parte del successo straordinario di Gabo dovrà essere attribuita al fatto che più e meglio di altri questo autore ha sempre parlato del fallimento. Che si tratti della iper-popolata, ma alla fine distrutta da un uragano, comunità di Macondo, di Cent’anni di solitudine o del tiranno sudamericano (morto all’epoca del racconto) de L’autunno del patriarca, e passando dalla ossessiva famiglia di Sierva Maria (la protagonista di Dell’amore e di altri demoni) per chiudere con l’attempato giornalista, il novantenne che in Memoria delle mie puttane tristi, per assaporare l’amore ha bisogno di giacere nel letto di un adolescente vergine, è tutto un via vai di gente che nella vita ha molto vissuto, ma ha sempre perso.

Gabriel García MárquezI motivi per cui io personalmente alle sue Amaranta, Rebeca, ho sempre preferito le Molloy Bloom o al limite le sorelle Materassi e più tardi le Anna Wulf de Il Taccuino d’oro (Doris Lessing) è che, per le seconde, la vita non solo era una partita aperta, ma una partita che valeva la pena giocare munite di uno strumento straordinario come quello dell’ironia. Troppo somigliavano alle nostre Mena o Lia (protagoniste del romanzo I Malavoglia), le protagoniste di García Márquez, così attaccate rispettivamente alla famiglia o alla strada. Poche sfumature sentimentali, per le Remedios e le Serva Maria, così come per la vergine adolescente di Memoria delle mie puttane tristi. Le donne di Gabo non sfuggono a una facile iconografia, quella che ancora oggi, e spesso, la stampa italiana vorrebbe diffondere (per fortuna, senza riuscirci sempre): le donne sono fondamentalmente sante. O puttane. A volte esistono le sagge e selvatiche che, come la Amaranta di Cent’anni di solitudine, è capace di preveggenza. E poi, suore, bambine pazze, vecchie deformi. No, non abbiamo mai amato Gabo. Per la sua mancanza d’ironia, dicevamo, per le sue donne, così banali, a volte, così intense, altre, ma sempre così distanti da quello che noi volevamo diventare. E se, per un periodo, la storia della sua vita difficile – con quegli orrendi esuli anticastristi che lo minacciavano negli Stati Uniti – ci affascinava, a un certo punto abbiamo spesso di interessarci a lui. Rimaneva il ricordo di un uomo pieno di dignità, l’inventore del realismo magico, che Clinton negli anni ‘90 invitò alla Casa Bianca, (rimuovendo il divieto di entrata negli Stati Uniti che gli era stato imposto nel 1961), definendolo «il mio scrittore preferito».

Facebooktwitterlinkedin