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A cuore duro
Limpida e toccante la ricostruzione che Giorgio Fontana fa degli anni di piombo in “Morte di un uomo felice”. Così come è coraggioso il romanzo di Valeria Parrella su una madre e il suo bambino disabile. Philippe Vilain scava invece nel contorto rapporto di un intellettuale con una parrucchiera
Noi due – Tra gli scrittori italiani del Duemila Valeria Parrella (Napoli, 1974) occupa un posto di assoluta eccellenza. Anche se, come è capitato a questo suo ultimo libro, Tempo di imparare, edito dalla Einaudi (126 pagine, 17 euro), avrebbe dovuto rimanere molto in testa alle classifiche dei più venduti. Non è successo, invece. Ma ormai sappiamo a memoria i trucchi dei successi letterari di questa nostra epoca che ama il facile, il banale, il lessico scorrevole e povero. Si aggiungano la visibilità televisiva e l’incoraggiamento dei dirigenti editoriali a spingere esordienti, e non, a privilegiare la superficie piuttosto che l’abisso, la furbizia e l’ammicco piuttosto che l’intelligenza aspra e tagliente. Insomma: non si deve “affaticare” chi legge. Invece la Parrella, raccontando in prima persona le vicende di una madre di un bambino disabile, va controcorrente. E lo fa come un palombaro: va sotto e dentro le cose, usa un linguaggio preciso, elegante col quale abbraccia il modo e non solo un salottino alla moda.
È una donna in continua lotta, la protagonista. Contro la burocrazia o lenta o distratta o semplicemente idiota. Le dicono “Lei è cinica”, lei risponde “Sto imparando”. Va a testa bassa contro medici afasici, approssimativi, cialtroni o scandalosamente restii a imparare. Loro che manovrano paroloni talvolta in un gioco di sadismo paraprofessionale, da casta di cartone, si scandalizzano se una madre o un padre li invitano a rovesciare il metodo conoscitivo e curativo ascoltando i genitori che sanno, intuiscono, interpretano. La madre protagonista si fa tutt’uno con il figlio Arturo e con i suoi grovigli neurologici. Il bimbo ha deficit visivi, attacchi di panico, problemi deambulatori, e altro. Gli handicap, parola mutuata dal mondo delle corse dei cavalli, che strano. «Gli altri partono da zero, noi siamo partiti da meno zero, da sottoterra. Noi siamo in svantaggio».Visite neurologiche possibili tra 78 giorni, computer delle Asl che sono rotti. C’è amarezza e rabbia: «…la vita ha colpito me colpendo lui». C’è il timore di morire e non lasciarlo autosufficiente. Ma c’è anche lo sguardo sui paragoni: i bimbi sani imparano a dipingere la natura morta, «mentre tu eri già al Guernica, ma nessuno si era accorto che non vi eri arrivato per gradi». Eppure tutti noi «siamo nati semplici e complessi». E alla fine una consapevolezza nuova. Ma i medici “sacerdoti” sanno? No, semmai «ci sanno fare con chi gli sta davanti in ginocchio». E la madre di cui parla l’autrice arriva al nocciolo: «La disabilità è una possibilità della vita, e quando ne acquistiamo consapevolezza dopo un poco impariamo a sentirla in maniera naturale, istintiva. Ma qui genera l’handicap e rende gli uomini miseri, e io e te, figlio, a questa abiezione non ci dovremo mai chinare». Questo si può e si deve imparare.
L’indifferente – François, professore di filosofia, appartiene all’alta borghesia. Jennifer fa la parrucchiera. I loro sguardi si incrociano sullo specchio. Fino a quando cominciano a frequentarsi. Ma la storia raccontata da Philippe Vilain non segue i binari consueti, e questo per la particolarità caratteriale ed emozionale del protagonista, da sempre vissuto in uno stato di indecisione convinta: «In amore, mi capita di pensare che non ho mai vissuto nulla, che forse mi sono lasciato sfuggire le cose essenziali e che, anche se ho conosciuto delle donne e le ho amate, non mi sono mai risolto a impegnarmi, sposarmi, creare una famiglia; senza dubbio per pigrizia, per la voglia di non sconvolgermi la vita o di preservare la mia indipendenza… e niente mi sembra più assurdo di dover scegliere fra un’insoddisfazione e un’altra». L’autore, in Non il suo tipo, edito da Gremese (165 pagine, 13 euro), compie un’eccezionale scavo all’interno di una personalità che è consapevole del fatto che «le donne sono un’occasione per sognare». Sa di poter amare, ma non sempre, quando una donna è lontana: è solo allora che scatta il desiderio, che poi, nella vita di tutti i giorni non si concretizza in alcun impegno. È muto, non manifesta gelosia, rimedia come può, e lo fa talvolta con sommo fastidio, all’abisso culturale che separa se stesso dalla “piccola parrucchiera”. La quale vorrebbe, anche in base alla sua incomprensibile (per lui) normalità, “costruire” qualcosa che oltrepassi l’avventura. Ce la mette tutta. Ma François, pur condiscendente, si mostra freddo. E infastidito dalla nube di mediocrità e cattivo gusto che avvolge l’esuberante Jennifer, stracolma di idee convenzionali ma anche di quell’onestà del vivere che sfugge al filosofo che mai rinuncia a pensare che la sua strana e occasionale compagna sia «condannata alla superficialità».
Vilain è quasi spietato nell’analizzare così acutamente la relazione amorosa che vede da una parte un quarantenne invischiato nella «fanghiglia sensuale del tempo» e una trentenne che per un momento indurrà François a guardarsi in modo disarmato: «In piedi, qui, davanti al vetro, di fronte alla città, sarò davvero io, e la bocca di Jennifer mi farà sentire la vanità di quegli intellettuali a cui, tuttavia, ho dedicato la mia vita». Ma per lui, intimamente passivo, il destino non può che riservare la consueta riflessione: «Mi resi finalmente conto dell’assurdità della nostra relazione». Sa bene, però, che le grandi emozioni lo lasciano freddo… che l’emozione arriva in ritardo rispetto alle parole, a quello che sta vivendo. Perché Jennifer è sparita?
Anni di piombo – Siamo proprio sicuri di conoscere bene, e di ricordare, gli inizi di quegli anni Ottanta in cui le pistole delle Brigate Rosse cercavano bersagli-simboli per ribadire, ancora una volta, di essere gli eredi della lotta partigiana degli anni Quaranta? Ed ecco perché la letteratura, sorretta da una forte documentazione, rimedia. Appena uscito presso Sellerio il limpido e toccante libro di Giorgio Fontana (Morte di un uomo felice, 280 pagine, 14 euro). È la storia del giudice Giacomo Colnaghi, uomo semplice e ostinato, uomo che sa ridere delle barzellette udite nei tragitti in tram, che apprezza (dice che sono “stupendi”) i panini che addenta fuori dell’ufficio, uomo che continua ad approfondire l’amicizia con il librario Mario, essere romantico ma poco fortunato. Siamo a Milano, nel 1981. L’autore torna sui temi già esplorati nel suo precedente Per legge superiore, ossia la difficoltà con cui procede la macchina della giustizia, la solitudine dei singoli, l’ansia di fronte alla necessità di prendere decisioni. Colnaghi deve vedersela col rischio di essere ucciso e al tempo stesso di «contribuire anche minimamente a creare un ordine giusto». La vicenda umana del giudice s’intreccia con il ricordo del padre Ernesto, operaio comunista ucciso dai fascisti, e qui subentra la fantasia affettuosa, ma anche politica, del figlio alla ricerca di un’identità paterna cui potersi appoggiare. Giorgio Fontana inserisce nel suo libro alcuni versi di Mario Luzi: «Non potrai giudicare di questi anni vissuti a cuore duro, mi dico; potranno altri in tempo diverso».