La morte di un mito/1
Gabo in paradiso
Apologia di un grande inventore di dubbi e solitudini. L'uomo che più di ogni altri, solo facendo letteratura, ci ha spiegato quale sia il valore della memoria. Soprattutto quando viene alterata dalla magia
Non sono qui a far discorsi: ho letto Cent’anni di solitudine sei volte; ogni volta scoprendo qualcosa di nuovo, e solo alla terza lettura penetrando la circolarità del passaggio da José Arcadio Buendia a Aureliano Babilonia. E lo tengo pronto sul mio comodino perché benedico il giorno in cui sentirò il bisogno di cominciare la settima lettura. Gabriel García Márquez è lo scrittore che ha segnato di più la mia vita. Non solo la mia vita di lettore. Ricordo ogni occasione in cui ho avuto bisogno di ricorrere a lui, alla sua comicità dolente. E ho trovato ogni volta nelle mie disgrazie il piacere di sollevarmi con le sue parole.
C’è un’età, caro amico lettore, in cui la realtà personale si inaridisce perché si estingue la vena altrui: non posso più aspettarmi punti esclamativi da Samuel Beckett, né buoni dischi da Lucio Battisti, né acute riflessioni da Mario Rigoni Stern, né fulmini da Toti Scialoja. E ora nemmeno più suggestioni o risate da Gabriel García Márquez: non è come essere vecchi, no. Ma è come aver superato il proprio tempo. Mi resta solo da sperare in Salman Rushdie. Il resto è tutto da scoprire, ma so già che è una gran fatica registrare la propria fantasia a tempi nuovi. Ma per ora, nell’immediato, il problema è un altro: che cosa lasciamo andare nel paradiso dei giusti insieme con Gabriel García Márquez?
Cominciamo da Cent’anni di solitudine: se n’è già detto tutto al punto che chi si azzardasse a compitare un’opinione propria non farebbe che ricamare banalità. Posso dire quel che è stato per me: Cent’anni di solitudine con la sua distensione secolare dà il senso della realtà presente (e la dissipazione futura di Aureliano Babilonia) che s’incardina al passato. Nel senso di una vita lunga cent’anni non tanto nella realtà (Ursula, la capostipite vive effettivamente un tempo lungo) ma nei legami identitari. I miei due nonni maschi combatterono nella Prima Guerra mondiale: io arrivo di lì anche se sono nato quasi mezzo secolo dopo. Vengo da lì: questo mi ha insegnato Cent’anni di solitudine. La critica ha sottolineato la maledizione secolare che attraversa il romanzo: io preferisco vederci la continuità vitale, la straordinaria capacità di uno scrittore di dirci che la nostra storia è più interessante di noi perché comprende più drammi e più sogni dei nostri. Che i Buendia s’estinguano è un’espediente letterario, reso necessario dalla scelta di Gabriel García Márquez di costruire un romanzo circolare; di farlo finire lì dove lo aveva fatto iniziare.
Poi tutto il resto: le morti annunciate, le puttane tristi, la compagnia bananiera, le mala ore, gli autunni del nostro sconcerto e del nostro patriarca… C’è un racconto di García Márquez che non posso dimenticare, uno dei dodici raminghi in cui un pescatore chiama i pesci per nome. E loro rispondono: una predestinazione magica ancorché piccola. Che cos’è fare il pescatore a fronte di tronisti e capitani d’industria? Eppure c’è una grande magia in quel pescatore che familiarizza con chi deve dargli da vivere. I suoi pesci non sono vittime: sono compagni di vita. E questa è la mia filosofia. Una filosofia politica, per dirla con García Márquez: ho sempre identificato questo pescatore dei Dodici racconti raminghi con Giuseppe Garibaldi. Perché anche il Generale chiamava per nome le sue vittime e loro rispondevano sì o no a seconda dei casi. Credo che García Márquez conoscesse bene Garibaldi: ho già detto altrove che il vecchio Generale abbandonato a Caprera non è né più né meno il colonnello Aureliano Buendia. «Il colonnello Aureliano Buendía promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati l’uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatré imboscate e a un plotone di esecuzione. Sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo. Respinse l’Ordine del Merito che gli conferì il presidente della Repubblica. Giunse a essere comandante generale delle forze rivoluzionarie, con giurisdizione e comando da una frontiera all’altra, e fu l’uomo più temuto dal governo, ma non permise mai che lo fotografassero. Declinò il vitalizio che gli offrirono dopo la guerra e visse fino alla vecchiaia dei pesciolini d’oro che fabbricava nel suo laboratorio di Macondo. Malgrado avesse sempre combattuto alla testa dei suoi uomini, l’unica ferita se la produsse lui stesso dopo aver firmato la capitolazione di Neerlandia che mise fine a quasi venti anni di guerre civili. Si sparò un colpo di pistola nel petto e il proiettile gli uscì dalla schiena senza ledere alcun centro vitale. L’unica cosa che rimase fu una strada di Macondo intitolata al suo nome. Ciò nonostante, secondo quanto dichiarò pochi anni prima di morire di vecchiaia, nemmeno questo si aspettava il mattino in cui se ne andò coi suoi ventun uomini a riunirsi alle forze del generale Victorio Medina». Insomma, Garibaldi! Perché la vita non è solo il proprio destino ma è anche come si riesce a gestirlo. Facendosi sempre sorprendere. «La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla». Non potendo gestire il futuro, è sufficiente gestire il ricordo, ecco la lezione di García Márquez. Serve ancora, oggi, un suggerimento del genere in un mondo che se ne frega della memoria e della consapevolezza?
Me lo sono chiesto spesso, mentre inseguivo preoccupato la malattia del mio povero mito e mentre mi chiedevo se avesse più scritto qualcosa con cui indicarmi la via per sopravvivere a tutto questo. No. García Márquez non serve più ai presenti. Serve ai sopravvissuti (noi altri) e ai posteri. Perché quando si studierà quel che è stato il Novecento si vedrà che è stato un secolo di gente che ha ammazzato (senza ragione o, al più, per soldi), di gente che s’è fatta ammazzare (senza ragione o, al più, per giustificare altrui guadagni) e pochi che hanno sognato. Tra costoro c’è García Márquez. Ed ecco la risposta alla domanda iniziale: questo, questa consapevolezza dell’utopia minoritaria della memoria è ciò che lasciamo andare nel paradiso dei giusti insieme con Gabriel García Márquez. Bisognerà andare fin lì a rileggerlo.