Un libro da rileggere
Estetica del Male
"Le benevole" di Jonathan Littell racconta con grande perizia un mondo sgradevole, abitato dal primato del sopruso sui deboli e i diversi. A che serve, oggi, rileggere le ragioni del nazismo?
Un gran bel libro, da ri-leggere assolutamente. È Le benevole di Jonathan Littell, Einaudi: un libro dove sembra che la speranza non ci sia più, dove il male la fa da padrone assoluto ma un male che in forme e numeri diversi è sempre esistito, è la scientificità, chiamiamola così, e il numero che lo rendono inimitabile. Il male, teorizzato e messo in pratica da uomini perversi e non, complici consenzienti, entusiasti o solo per indifferenza ma mai inconsapevoli specialmente negli ultimi anni di guerra. O perché è loro dovere ubbidire agli ordini, quante volte abbiamo sentito questa scusa nel corso del anni succedutisi alla seconda Guerra mondiale? Come dice il protagonista: «Non ho alcun rimpianto: ho fatto il mio lavoro, tutto qui».
Appunto, il male, l’orrore come lavoro mentre la vita, la propria, mantiene una parvenza di normalità anche sotto i bombardamenti degli Alleati su Berlino. Delirio d’onnipotenza trasmesso da un vertice verso la base in un gioco di vasi comunicanti che non lascia scampo a nessuno come non ci sarà scampo per le vittime. Una Storia che conosciamo bene e che ha segnato generazioni di uomini, di questo ci parla Le benevole di Littell.
Un libro duro, con pagine che lasciano il segno, che disturbano, che generano un sentimento di ripulsa, direi di schifo e non potrebbe essere altrimenti quando si descrivono le sofferenze e le uccisioni di inermi persone colpevoli solo di essere di religione ebraica. Il tutto narrato dal punto di vista del gerarca nazista, il giovane giurista Maximilien Aue, parte attiva e dirigente nell’organizzazione dello sterminio. Eppure si resta incollati alle pagine perché sono, nella loro complessità anche di rimandi teorici, avvincenti e coinvolgenti. Sicuramente non accade, come in un semplice romanzo, di prendere le parti del personaggio principale anche se negativo, nemmeno per un attimo, anzi è un crescendo di rigetto verso la persona che nonostante prenda coscienza di ciò che sta realizzando continua con rigore scientifico nel portare a termine i compiti assegnatogli scontrandosi con, è duro dirlo, colleghi che non capiscono le sottigliezze della gestione degli internati ma sono tutti volti solo all’eliminazione fisica del nemico. Ma Maximilien Aue non è solo una SS impegnata in una delle pagine più truci della storia, è anche figlio e fratello. E anche questa storia, personale, intima e sconvolgente influisce sullo sviluppo della trama al punto da intrecciarsi nella traccia principale della narrazione.
«Uccidendo gli ebrei – diceva – abbiamo voluto uccidere noi stessi, uccidere l’ebreo che è in noi, uccidere quello che in noi somigliava all’idea che ci facciamo dell’ebreo. Uccidere in noi il borghese panciuto che conta i suoi soldi, che rincorre gli onori e sogna il potere che si raffigura sotto l’aspetto di un Napoleone III o di un banchiere, uccidere la moralità ristretta e rassicurante della borghesia, uccidere l’economia, uccidere l’obbedienza, uccidere la servitù del Knecht, uccidere tutte quelle belle virtù tedesche. Perché non abbiamo mai capito che quelle qualità che attribuivamo agli ebrei chiamandole bassezza, fiacchezza, avarizia, avidità, sete di dominio e facile cattiveria sono qualità essenzialmente tedesche, e che se gli ebrei danno prova di queste qualità, è perché hanno sognato di somigliare ai Tedeschi, di essere tedeschi…».
Queste parole, fatte dire in un colloquio immaginario sotto l’effetto dell’alcool alla sorella di Aue, Una, ci riportano alla tesi dei tedeschi spaventati dalla voglia di inclusione dei connazionali di religione ebraica e che alla fine dell’ottocento avevano portato gli ebrei a ricoprire ruoli di rilievo come ricordato nel libro di Amos Elon di cui abbiamo già parlato in queste pagine.
Un gran lavoro quello di Littell, quasi maniacale come lo sterminio attuato dai nazisti, nell’immedesimarsi nella giovane SS che si è rifatta una vita dopo la guerra e che dirige una fabbrica di merletti e scrive la sua storia «per mettere in chiaro le cose per me stesso, non per voi». E lo fa con precisione, verrebbe da dire tedesca, e dovizia di particolari anche ributtanti. L’autore si immerge in un mondo ricostruito più che bene e dove si incontrano personaggi realmente artefici dello sterminio degli Ebrei a partire da Hitler, Himmler, Speer, Höss, Eichman, Degrelle e altri intorno con cui si muove il giovane Aue. Narrazione ricca di particolari, storici, geografici, politici e filosofici che trasformano, in alcuni tratti, il libro in un saggio di storia e non solo. Ma anche i personaggi inventati hanno uno spessore che li rende del tutto plausibili. Fornisce spunti per riflessioni e approfondimenti consigliabili per chi ancora non ha intrapreso questo percorso.