La scelta e il destino di Márquez
Sua Eminenza Gabo
Scrivere, una condizione sospesa tra fatalità e decisione. Ecco perché l'autore di “Cent'anni di solitudine” è “eminente”, padrone di se stesso: per la libertà con cui ha realizzato il proprio progetto esistenziale, ossia il suo essere scrittore
Il filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer considera “eminente” un testo che corrisponda a «una forma autonoma in se stessa consolidata, che vuol essere letta di nuovo, continuamente di nuovo, anche se è stata capita da sempre». Secondo una tale premessa, Gabo è di certo autore di testi eminenti e perciò è, o dovrebbe essere, egli stesso soggetto eminente, padrone e consapevole di se stesso – dell’Io che egli è – e della propria autonomia e autenticità. La eminenza dell’Io-Márquez dipende dalla libertà con cui egli abbia scelto e realizzato il proprio progetto esistenziale, ossia il proprio destino di scrittore.
Gabo si pone il quesito e dà una risposta nelle Disavventure di uno scrittore di libri, pubblicate su «El Espectador» nel 1956. Nel modo seguente (i corsivi sono miei): «Scrivere libri è un mestiere suicida. [… E quindi] è naturale domandarsi perché noi scrittori scriviamo. La risposta, inevitabilmente, è tanto melodrammatica quanto sincera. Si è scrittori, semplicemente, come si è ebrei o neri. Il successo è incoraggiante, il favore dei lettori è stimolante, ma questi sono vantaggi supplementari perché un bravo scrittore continuerà a scrivere comunque, anche se le sue scarpe cadono a pezzi e anche se i suoi libri non vendono». Abbiamo catturato un flash dalle memorie che Gabriel García Márquez ha consegnato al suo biografo Gerald Martin e abbiamo compreso la forte accettazione del proprio destino da parte di un grande scrittore. Il quale, però, sa di essere scrittore allo stesso modo in cui un negro è negro e un ebreo è ebreo: pronunciando queste figure, García Márquez dichiara, in estrema sintesi ed efficacia, che egli sceglie e “incorpora” un destino già segnato dal suo essere gettato qui-e-adesso, dove il colore della pelle e/o l’etnia, pregressa o presente che sia, stabiliscono comunque l’alfa della propria sorte esistenziale.
In altre parole, tra accettazione e scelta del proprio destino, nel primo García Márquez sembra prevalere il termine della rassegnazione e della passività rispetto a quello della progettazione e della iniziativa: sembra privilegiato il gesto del subire piuttosto che quello dell’imporre, l’accettare piuttosto che lo scegliere. Non sembra verificarsi l’identificazione armoniosa tra i due termini.
Ciò rileva anche un conoscitore attento della letteratura latino-americana, Dario Puccini, che, introducendo Foglie morte (1955), vi rintraccia alcune radici, in particolare «il tema della volontà collettiva, cui solo si può opporre il potere del mito […] e con esso il potere della volontà individuale, […] a carattere eroico». E, appunto, scuola ed esercizio di eroismo praticò il giovane Gabriel scrivendo una serie di racconti (dal 1947 al 1955) e il Racconto di un naufrago, pubblicato a puntate sul giornale colombiano «El Espectador» nel 1955.
Cesare Acutis, introducendo Occhi di cane azzurro (1947-1955), richiama, fin dall’inizio, la curiosità del lettore: egli taccia García Márquez di «deicidio» o comunque di «ribellione contro Dio», contro la creazione divina di una insostenibile realtà. Acutis attribuisce a Vargas Llosa questa lettura e interpretazione dell’opera narrativa (e della condizione esistenziale) del giovane García Márquez. Ma egli stesso, proseguendo, considera i primi racconti di Gabo come la preistoria di una rivolta contro la natura, che lo scrittore vive, a sua volta, come un «limbo di nevrosi». La nevrosi, per così dire, “letteraria” e il limbo di scrittore coincidono con le prime prove narrative di Gabriel, quando egli cerca spasmodicamente la sua originale personalità, ed è invece ossessionato, a causa delle sue prime letture, da «fantasmi letterari» come Kafka e Faulkner. E dal cinema: «Ho sempre creduto – dirà Gabriel anni dopo, scrittore già famoso – che il cinema, con il suo tremendo potere visuale, fosse il mezzo di espressione perfetto. Tutti i miei libri precedenti a Cent’anni di solitudine sono come intorpiditi da quella certezza». Cinema, Kafka, Faulkner: questa è la Trimurti che esalta e opprime il giovane García Márquez, negli anni cruciali della sua autoformazione. Che per lui furono anche anni del senso ambiguo e angoscioso della morte, grottesco persino: con personaggi che continuano a crescere nella bara; che, morti, abbandonano il proprio corpo e “corteggiano” per tremila anni i ruderi della propria casa; con personaggi che si atteggiano a replicare la morte del fratello gemello…
Fino a quando non arriva Nabo, il negro che fece aspettare gli angeli, racconto del 1951. Nabo, il protagonista – che in certi momenti della narrazione evoca lo scarafaggio della Metamorfosi kafkiana – rompe le corde che lo legano, scardina la porta e corre verso le stalle come una furia, come «un toro bendato in una stanza piena di lampade» – dice García Márquez – «lasciandosi alle spalle la catastrofe, la dissoluzione, il caos». Sembra che lo scrittore stia qui narrando l’allegoria del proprio riscatto: distruggerà il mondo che gli sta attorno, quello che gli è ostile, non gli piace e non riesce ad accettare; e costruirà il proprio mondo e consumerà, così, il deicidio che Vargas Llosa gli attribuisce. Nell’ultima narrazione della raccolta Occhi di cane azzurro, e cioè Monologo di Isabel mentre vede piovere su Macondo, del 1955, nasce, appunto, Macondo, la località immaginaria in cui “abiterà”, d’ora in avanti, il cosiddetto «realismo magico» di García Márquez. Il quale, con la creazione di Macondo, ha fecondato con una scelta l’accettazione del proprio destino. Il suo essere scrittore non è più una fatalità ma è diventata la sua decisione di esistenza.